Visioni

Essere bambini a Palermo tra i criminali e il gusto dell’Iris

Essere bambini a Palermo tra i criminali e il gusto dell’Iris

Cinema Arriva domani in sala, dopo il passaggio in concorso al Torino film festival, il film di Pif, La mafia uccide solo d'estate. Un esordio sorprendente

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 27 novembre 2013

È un buon momento per i giovani registi e attori che vengono dai programmi Mediaset, da Zelig, Le iene, Colorado.Ultime vere fucine di comici e artisti di talento. Pif, ad esempio, nome d’arte di Pierfrancesco Diliberto, autore di questa riuscitissima opera prima, La mafia uccide solo d’estate, cioè come crescere in questi ultimi trent’anni in una Palermo dominata dalla presenza della mafia e dei suoi crimini, si è proprio costruito dentro i programmi Mediaset. Prima come operatore e coautore dei servizi di Victoria Cabello a Le iene, e poi anche come protagonista in prima persona dei suoi stessi servizi.

Se un film come Sole a catinelle – di Gennaro Nunziante con Checco Zalone – parte dalla fine del berlusconismo per constatarne i danni, il film di Pif, ugualmente «politico», affronta dal di dentro il crescere nell’Italia malata degli anni ’90. E con risultati davvero interessanti.

«Minchia, che cantante sticchiusa!», se ne esce Leoluca Bagarella al suo amico Totò Riina vedendo una foto di Spagna sulla copertina di un giornale. Poco più avanti, in una Palermo caldissima, un bravo picciotto cerca di spiegare l’uso del telecomando per azionare il condizionatore d’aria a un Riina poco tecnologicizzato. Ovviamente quando dovrà far saltare in aria Borsellino e la sua scorta, Riina avrà capito l’uso del telecomando.

La mafia, in un film italiano, come dimostrano esempi illustri, da L’onorata società di Riccardo Pazzaglia con Franco e Ciccio a Johnny Stecchino di Roberto Benigni, può fare anche ridere. Più difficile far ridere con la mafia storicizzata, inquadrata cioè nel suo tempo e con azioni criminose e personaggi celebri della famiglia, e della nostra politica, ricostruiti alla perfezione come in questo film, presentato in gara al Festival di Torino.

Vediamo come si cresce sotto la mafia a Palermo nascendo nel 1969 e procedendo in mezzo al trionfo sanguinoso di Riina e dei suoi uomini, grazie al sostegno di un governo democristiano colluso che non sa, o non vuole, difendere i suoi uomini migliori, pronti a saltare in aria assieme alle scorte. E proprio agli agenti di giudici e magistrati, che hanno lasciato la vita a Palermo, è dedicato il film, che trova la sua strada migliore non tanto nella ricostruzione dei rapporti Stato-mafia alla Marco Travaglio, quanto nell’unire la scrittura comica del quotidiano dei mafiosi e dei palermitani, per bene e non, alla scrittura della storia mafiosa e criminale della città. Dove funziona davvero è nella grande parte di descrizione della Palermo anni ’70 e ’80 in cui il piccolo Arturo, interpretato dal miracoloso Alex Bisogni, impara a muoversi, a vivere, a innamorarsi, fra un padre cialtrone, Rosario Lisma, una madre poco attenta, Barbara Tabita, un prete colluso che farà una brutta fine, Ninni Bruschetta, un giornalista serio, Claudio Gioè, la ragazzina che gli fa perdere la testa, Flora, Ginevra Antona e mille personaggi della mafia e delle forze dell’ordine. Pif sceglie benissimo gli attori che interpretano Riina, Antonio Alveario, Bagarella, Domenico Centamore, ma anche il giudice Rocco Chinnici, Enzo Salomone, e Boris Giuliano, Roberto Burgio, che insegnerà a Arturo l’importanza delle Iris, dolci ripieni di ricotta e cioccolato. Non solo sono tutti inediti e credibili, ma riescono a farci ridere e nello stesso tempo a farci paura, nella grande tradizione del Johnny Stecchino di Billy Wilder e poi di Benigni. Il gioco funziona un po’ meno quando ai bambini si sostituiscono Pif e Cristiana Capotondi, come Arturo e Flora adulti, forse perché si perde quella freschezza che portavano proprio i ragazzini rispetto alla storia di mafia. Ma l’impostazione non cambia, anzi, visto che si mettono in scena con grande accuratezza prima tutta la dinamica dell’omicidio di Salvo Lima, presentato nel film come una macchietta (Totò Borgese), poi quella che porterà alla morte di Falcone e Borsellino. Se L’ultima ruota del carro di Veronesi cerca una strada alla Luigi Zampa per raccontare gli ultimi quarant’anni di storia italiana visti attraverso la vita di un non protagonista che sembra sempre sfiorare gli eventi o incapparci per caso, La mafia uccide solo d’estate ha un progetto più ambizioso e meno bozzettistico, perché ricostruisce gli anni delle grandi stragi mafiose dal cuore di una città dove mafiosi, cittadini, collusi e tutori dell’ordine convivono. Ne viene fuori un ritratto profondo e sentito sia di una città abbandonata dallo stato che di una infanzia violenta dove si dovrà per forza di cosa aprire gli occhi e giudicare e dove niente avviene per caso. Il piccolo Arturo passerà così dalla venerazione per Giulio Andreotti, tipici di una certa piccola borghesia cattolica meridionale, alla protesta di piazza contro uno stato che non solo non ti difende, ma che sta proprio da un’altra parte. Magari non è un film del tutto riuscito, ma in questa stagione è un’opera prima importante e pure molto divertente, perché Pif sembra sapere esattamente quello di cui sta parlando e che descrive. La sua non è la Palermo delle fiction e la sua storia d’Italia non è mai banale.

È un buon momento per i giovani registi e attori che vengono dai programmi Mediaset, da Zelig, Le iene, Colorado.Ultime vere fucine di comici e artisti di talento. Pif, ad esempio, nome d’arte di Pierfrancesco Diliberto, autore di questa riuscitissima opera prima, La mafia uccide solo d’estate, cioè come crescere in questi ultimi trent’anni in una Palermo dominata dalla presenza della mafia e dei suoi crimini, si è proprio costruito dentro i programmi Mediaset. Prima come operatore e coautore dei servizi di Victoria Cabello a Le iene, e poi anche come protagonista in prima persona dei suoi stessi servizi.

Se un film come Sole a catinelle – di Gennaro Nunziante con Checco Zalone – parte dalla fine del berlusconismo per constatarne i danni, il film di Pif, ugualmente «politico», affronta dal di dentro il crescere nell’Italia malata degli anni ’90. E con risultati davvero interessanti.

«Minchia, che cantante sticchiusa!», se ne esce Leoluca Bagarella al suo amico Totò Riina vedendo una foto di Spagna sulla copertina di un giornale. Poco più avanti, in una Palermo caldissima, un bravo picciotto cerca di spiegare l’uso del telecomando per azionare il condizionatore d’aria a un Riina poco tecnologicizzato. Ovviamente quando dovrà far saltare in aria Borsellino e la sua scorta, Riina avrà capito l’uso del telecomando.

La mafia, in un film italiano, come dimostrano esempi illustri, da L’onorata società di Riccardo Pazzaglia con Franco e Ciccio a Johnny Stecchino di Roberto Benigni, può fare anche ridere. Più difficile far ridere con la mafia storicizzata, inquadrata cioè nel suo tempo e con azioni criminose e personaggi celebri della famiglia, e della nostra politica, ricostruiti alla perfezione come in questo film, presentato in gara al Festival di Torino.

Vediamo come si cresce sotto la mafia a Palermo nascendo nel 1969 e procedendo in mezzo al trionfo sanguinoso di Riina e dei suoi uomini, grazie al sostegno di un governo democristiano colluso che non sa, o non vuole, difendere i suoi uomini migliori, pronti a saltare in aria assieme alle scorte. E proprio agli agenti di giudici e magistrati, che hanno lasciato la vita a Palermo, è dedicato il film, che trova la sua strada migliore non tanto nella ricostruzione dei rapporti Stato-mafia alla Marco Travaglio, quanto nell’unire la scrittura comica del quotidiano dei mafiosi e dei palermitani, per bene e non, alla scrittura della storia mafiosa e criminale della città. Dove funziona davvero è nella grande parte di descrizione della Palermo anni ’70 e ’80 in cui il piccolo Arturo, interpretato dal miracoloso Alex Bisogni, impara a muoversi, a vivere, a innamorarsi, fra un padre cialtrone, Rosario Lisma, una madre poco attenta, Barbara Tabita, un prete colluso che farà una brutta fine, Ninni Bruschetta, un giornalista serio, Claudio Gioè, la ragazzina che gli fa perdere la testa, Flora, Ginevra Antona e mille personaggi della mafia e delle forze dell’ordine. Pif sceglie benissimo gli attori che interpretano Riina, Antonio Alveario, Bagarella, Domenico Centamore, ma anche il giudice Rocco Chinnici, Enzo Salomone, e Boris Giuliano, Roberto Burgio, che insegnerà a Arturo l’importanza delle Iris, dolci ripieni di ricotta e cioccolato. Non solo sono tutti inediti e credibili, ma riescono a farci ridere e nello stesso tempo a farci paura, nella grande tradizione del Johnny Stecchino di Billy Wilder e poi di Benigni. Il gioco funziona un po’ meno quando ai bambini si sostituiscono Pif e Cristiana Capotondi, come Arturo e Flora adulti, forse perché si perde quella freschezza che portavano proprio i ragazzini rispetto alla storia di mafia. Ma l’impostazione non cambia, anzi, visto che si mettono in scena con grande accuratezza prima tutta la dinamica dell’omicidio di Salvo Lima, presentato nel film come una macchietta (Totò Borgese), poi quella che porterà alla morte di Falcone e Borsellino. Se L’ultima ruota del carro di Veronesi cerca una strada alla Luigi Zampa per raccontare gli ultimi quarant’anni di storia italiana visti attraverso la vita di un non protagonista che sembra sempre sfiorare gli eventi o incapparci per caso, La mafia uccide solo d’estate ha un progetto più ambizioso e meno bozzettistico, perché ricostruisce gli anni delle grandi stragi mafiose dal cuore di una città dove mafiosi, cittadini, collusi e tutori dell’ordine convivono. Ne viene fuori un ritratto profondo e sentito sia di una città abbandonata dallo stato che di una infanzia violenta dove si dovrà per forza di cosa aprire gli occhi e giudicare e dove niente avviene per caso. Il piccolo Arturo passerà così dalla venerazione per Giulio Andreotti, tipici di una certa piccola borghesia cattolica meridionale, alla protesta di piazza contro uno stato che non solo non ti difende, ma che sta proprio da un’altra parte. Magari non è un film del tutto riuscito, ma in questa stagione è un’opera prima importante e pure molto divertente, perché Pif sembra sapere esattamente quello di cui sta parlando e che descrive. La sua non è la Palermo delle fiction e la sua storia d’Italia non è mai banale.

 

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