Cultura

Essere apolidi della Storia

Essere apolidi della StoriaMurat Gok, «Border» (2014)

TEMPI PRESENTI Una riflessione sulle migrazioni del filosofo francese dal volume «Passare a ogni costo». Un dittico composto da un testo della scrittrice greca Niki Giannari e la replica qui anticipata in un estratto. Il 6 giugno, in libreria per Casagrande, un confronto sulle migrazioni

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 1 giugno 2019

Anche se è caritatevole, il campo non riconosce coloro che raccoglie. I rifugiati, costretti ad aspettare a tempo indeterminato per sapere cosa sarà di loro, esistono a malapena come soggetti del diritto – o come «soggetti a pieno titolo» – perché solo i loro incerti documenti, i loro «documenti ufficiali», esisteranno e parleranno per loro. La legge sembra voler prendere una decisione solo su quei documenti, non su loro stessi. Come se fossero meno robusti di un piccolo pezzo di cartone piegato che si perde facilmente, si falsifica, si ruba o prende il volo, o annega. I rifugiati sono fuggiti da una realtà in cui la loro incolumità fisica, la loro stessa vita, era in pericolo. Hanno rischiato la vita per raggiungere uno spazio nel quale vige il diritto.

OGGI, UN CAMPO li accoglie, dà loro da mangiare, fornisce loro una tenda o una mantellina impermeabile, ma è uno spazio dove la loro vita civile è continuamente violata. Sono condannati all’attesa burocratica di notizie sul loro «statuto». Stanno in fila, aspettando di essere umani. Eppure, sono lì, di fronte a noi, con i loro gesti, i loro volti, le loro parole. Come scrive Niki Giannari, «si posano qui, / aspettano e non chiedono niente / solo passare».
Passare. Passare a ogni costo. Piuttosto crepare che non passare. Passare per non morire in questo territorio maledetto e nella sua guerra civile. Essere fuggito, aver perduto tutto. Passare per tentare di vivere qui dove la guerra è meno crudele. Passare per vivere come soggetti del diritto, come semplici cittadini. Poco importa il paese, purché sia uno Stato di diritto. Passare dunque per cessare di essere fuori dalla legge comune. Passare per sentirsi protetti dalle convenzioni internazionali, dai diritti umani, da una giustizia di fronte alla quale nessun crimine resterà impunito. E pagare un contrabbandiere, un brigante, se è necessario per passare: diventare un fuorilegge.
Prendere questa decisione, anche se con la paura nello stomaco, anche se con la paura terribile per la propria vita, per quella dei bambini. In ogni caso: passare per vivere. Ma quando siete fuggiti dalle mura chiuse delle cantine bombardate, avete trovato un confine chiuso e un filo spinato nel campo di Idomeni.
È ancora uno Stato di diritto questo Stato – o questo insieme di Stati che procrastinano all’infinito, l’Europa dei governi, cioè – che viola i diritti che esso stesso ha emanato, per i quali si è esso stesso impegnato? Come in molti altri luoghi della terra, anche a Idomeni il diritto d’asilo viene nello stesso tempo esercitato e violato. Questo è ciò che Niki Giannari ha potuto osservare nella durata. La sua poesia si leva come un lamento, dice la collera di fronte all’inospitalità dei governi, ma esprime anche l’emozione e la gratitudine di fronte all’ospitalità, nonostante tutto, di una società civile che agisce con coraggio. È forse per questo che Lena Platonos legge la poesia – lei che di solito canta con innocenza e purezza – con una voce incrinata dalla tristezza e dalla speranza.
Il giurista Gilles Lhuilier ha ripercorso, con altri, le tappe che hanno portato, dall’inizio dell’Ottocento ai giorni nostri, alla creazione dell’istituzione giuridica del campo di rifugiati. Mostra chiaramente come la «politica dell’eccezione» – cioè lo sforzo dei governi di gestire alcune grandi crisi che colpirono le popolazioni civili, come nel 1940 o nel 1945 – si sia trasformata, cinicamente o meno, in una vera e propria politica dell’eccezione: una «eccezione come politica», una politica che istituisce la soluzione dell’eccezione e non cerca di risolverne il problema.

OLIVIER LE COUR Grandmaison, da parte sua, ha mostrato le origini coloniali – e le caratteristiche persistenti – delle misure di detenzione amministrativa la cui pratica e concettualità giuridica hanno continuato a diffondersi fino a diventare un luogo comune in tutto il mondo.
Da una parte, quindi, lo «statuto dei rifugiati» si è istituzionalizzato e mondializzato a partire dalla seconda guerra mondiale, come ricordato in particolare da Alain Rey nel suo libro Parler des camps au XXIe siècle. Una «convenzione relativa allo statuto dei rifugiati e degli apolidi» fu firmata a Ginevra nel 1951, e seguita nel 1967 da un protocollo, ratificato da centoquarantasette Stati, che ne ampliava in modo significativo la definizione. Vi si poteva leggere questa semplice ovvietà (benché sia stata oggetto di accesi dibattiti): «[Il rifugiato è una] persona che si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza o che ne costituisce la residenza abituale poiché teme d’esservi perseguitato», per motivi etnici o razziali, religiosi o nazionali, di comunità o di opinione. Questa definizione era applicabile a diciannove milioni di persone nel 2014, il numero di rifugiati ufficialmente riconosciuti nel mondo. Ce ne sono molti di più oggi: almeno cinquanta milioni, molti di più di quanti ce ne siano mai stati nella storia dell’umanità. È, per eccellenza, una delle miserie più spaventose – o uno dei grandi crimini – del nostro tempo.

POICHÉ c’è anche l’altro aspetto, il rovescio di questa evidenza giuridica e virtuosa: c’è l’evidenza politica e concreta che, invece, è semplicemente vergognosa e rivoltante. Idomeni è un esempio tra tanti del modo in cui l’Unione Europea cerca cinicamente di disporre l’esternalizzazione delle procedure d’asilo e d’immigrazione: sarete accolti, ma altrove. Vogliate dunque restare dietro i nostri confini. De jure, accogliamo i rifugiati, de facto li marginalizziamo e li criminalizziamo – per esempio, guardando queste popolazioni terrorizzate come possibili orde di terroristi – giustificando così il fatto di rinchiuderli all’esterno, secondo la formula utilizzata da Claire Rodier in uno studio eloquentemente intitolato Aux marges de l’Europe: la construction de l’inacceptable. Proprio questo divario – questa palese contraddizione, questa crudeltà fondamentale – tra la legge (de jure) e la realtà (de facto) non era sfuggito, sessantacinque anni prima di Idomeni, allo sguardo critico della «filosofa rifugiata» Hannah Arendt. Correva il 1951, l’anno stesso, cioè, della molto democratica Convenzione di Ginevra. Eppure si trovava proprio nel suo libro Le origini del totalitarismo.

UNA DECINA di anni dopo la propria esperienza di apolide dentro il filo spinato del campo di Gurs e la successiva attesa angosciosa – di diversi mesi – per ottenere un passaporto e un biglietto per il transatlantico, Hannah Arendt riaffrontava il problema dei rifugiati e degli apolidi nel contesto della storia politica contemporanea. È significativo che il tema appaia, nel suo libro, in un punto di svolta: nel punto conclusivo dell’imperialismo (cioè alla conclusione del capitolo dedicato a questo tema) e, di conseguenza, nel punto iniziale del totalitarismo (cioè appena prima che inizi il capitolo dedicato a questo tema). Il punto conclusivo dell’imperialismo – ma questo «punto» è una durata: non continuiamo, forse, a viverlo oggi? – è per Arendt «il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani». È al centro di questo fenomeno storico, giuridico, antropologico e politico, che risorgono con forza le domande legate alle minoranze, ai rifugiati, agli apolidi.

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SCHEDA:

Esce in questi giorni per le Edizioni Casagrande Passare a ogni costo, della scrittrice greca Niki Giannari e dello storico dell’arte e filosofo francese Georges Didi-Huberman (trad. di Gregory Catella e Sara D’Addezio Catella, in libreria dal 6 giugno). Si tratta di un piccolo dittico composto da una lettera in versi della prima, intitolata Degli spettri si aggirano per l’Europa, e di una replica del secondo che, commentando e prendendo spunto dalle parole di Giannari, sviluppa un’ampia riflessione sulla situazione dei profughi delle guerre in Siria e in Afghanistan e più in generale sulle migrazioni in Europa.
Niki Giannari testimonia per chi è accolto dall’Europa ma nello stesso tempo ne viene escluso, marginalizzato. Il fatto di «salvare» qualcuno ci autorizza poi a umiliarlo, a pretendere che non chieda altro, che non abbia più altri desideri se non quello di sopravvivere? Eppure, come scrive Didi-Huberman, i rifugiati hanno cominciato «salvandosi da sé», rinunciando al tanto o al poco che avevano e mettendosi in viaggio, magari a piedi, attraverso il fango.
La lettera di Giannari è stata scritta nel campo di Idomeni nel 2016, nel pieno della crisi umanitaria provocata dalla chiusura del confine con la Macedonia, ma non ha perso niente della sua drammatica attualità. Secondo i dati forniti da Amnesty International, all’inizio di quest’anno erano 67 mila le persone bloccate nei campi profughi in Grecia, in condizioni igieniche e mediche disastrose. Tra queste, moltissimi bambini.
L’accorato saggio di Didi-Huberman mostra con chiarezza come il destino dell’Europa sia legato a quello dei migranti che premono alle sue frontiere e chiedono soltanto di «poter passare». Walter Benjamin, tra i maggiori pensatori europei del Novecento che nel 1940, in fuga dai nazisti, si toglie la vita a Portbou perché non riesce a passare in Spagna, appare qui come la figura emblematica di tutto questo: «Portbou, 26 settembre dell’anno 1940. / Il giorno in cui il confine si chiuse, Walter Benjamin si tolse la vita. / Se fosse arrivato un giorno prima o un giorno dopo? / Perché nessuno arriva al confine / un giorno prima o un giorno dopo. / Si arriva nell’Ora».
Colpiscono nel saggio di Didi-Huberman alcuni movimenti di pensiero, inattesi quanto illuminanti: come quando fa riferimento alle idee di Aby Warburg circa il «ritorno» delle immagini, alla loro sopravvivenza attraverso le epoche, per cercare di capire che cosa rappresentano per noi oggi i migranti che si aggirano per l’Europa come fantasmi. Oppure quando recupera una distinzione di Plinio il Vecchio per ragionare sulle immagini come «operatori di dignità».

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