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Essere amanti a Gerusalemme

Essere amanti a Gerusalemme

Al cinema «Sarah&Saleem», un uomo e una donna, sono sposati e hanno una relazione. Ma lui è arabo, lei israeliana e anche il sesso diventa una questione politica

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 25 aprile 2019

Sarah&Saleem sono un uomo arabo e una donna israeliana, hanno una relazione nella Gerusalemme che li divide e che nessuno e nulla dovrebbe unire. Non sono nuovi Giulietta e Romeo condannati da un amore proibito, anzi forse nemmeno si amano: si piacciono, trovano nel sesso, nei loro corpi che si stringono clandestini dentro al furgone di lui una specie di fuga al quotidiano, ai loro matrimoni un po’ stanchi, lei moglie di un militare israeliano assorbito dalla carriera, lui coi problemi economici e soprattutto con quel «fantasma» della paternità imminente.

LA LORO storia però diventa qualcos’altro quando vengono scoperti, e non è certo il «tradimento» il problema principale – non c’è spazio per questa rabbia e per questo dolore nemmeno nei coniugi che lo hanno subito. The Reports on Sarah and Saleem, il titolo internazionale del secondo film del regista palestinese Muhayad Alayan – in italiano divenuto Sarah&Saleem – Là dove nulla è possibile – restituisce con precisione cosa significa qualsiasi gesto, anche personalissimo come appunto avere un amante, nella realtà di un paese, quale Israele quando si tocca il muro sempre più netto e violento della separazione. Si può essere solo eroi anche senza volerlo, anche per caso, o forse persino di più. Così una circostanza uguale a tante altre, che si ripete ovunque nel mondo, materia di immaginario, commedia o farsa o tragedia che sia, diventa una questione di stato nella quale il confine già incerto tra pubblico e privato si polverizza.

I DUE SONO costretti a affrontare umiliazioni, persecuzioni, la love story diventa un thriller politico, uno scontro di posizione, un gioco (al massacro) che trasforma ogni persona in un nemico, e gli incontri della coppia in possibili atti di spionaggio.

QUELLO che si presenta come un paradosso narrativo, il cui facile esito potrebbe essere la contrapposizione tra «buoni» e «cattivi», viene tenuto dal regista con fermezza, a cominciare dalla costruzione dei personaggi che prendono il proprio spazio nell’inquadratura – e nella narrazione – senza divenire simboli di qualcos’altro.
Sono soprattutto le donne a opporsi a questo schema di controllo, Sarah (l’attrice Sivane Kretcher) e Bisa (Maisa Abd Elhadi) la moglie di Saleem, col velo e con la pancia ormai enorme, che combatte per la giustizia quando il marito finisce in galera. Perché è una lotta comune, una rivendicazione che li unisce, che mette insieme le loro vite sconvolte – rimorsi inclusi – e il desiderio di continuare a vivere. Nonostante tutto.

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