Esplorazioni subsahariane al Festival del cinema Africano Asia e America Latina
La kermesse Alcuni esordi, e immagini di resistenza cinematografica oltre le guerre e i regimi
La kermesse Alcuni esordi, e immagini di resistenza cinematografica oltre le guerre e i regimi
Dall’ampio e complesso programma del FESCAAAL, «Festival del cinema Africano Asia e America Latina» (20-28 marzo) diretto da Annamaria Gallone e Alessandra Speciale alla trentesima edizione, esplorazione che si concentra su paesi in gran parte ignorati dalla distribuzione, vogliamo mettere in evidenza alcune voci eccentriche, inaspettate, da paesi dove il cinema è stato cancellato. Hanno invece grandi possibilità di approdare sui nostri schermi il film d’apertura La nuit des rois di Philippe Lacôte (Costa d’Avorio), proveniente dalla mostra di Venezia (Orizzonti) e selezionato agli Oscar come miglior film straniero, magnifica sintesi di tradizione griot che può comunicare con qualsiasi pubblico internazionale, come anche i film provenienti dal Marocco come la commedia nel deserto Le miracle de Saint inconnu di Alaa Eddine Alje (Marocco), dalla Semaine di Cannes, o i drammatici temi sociali e personali delle donne protagoniste di Le rêve di Hinde Boujemal (Tunisia) o di Adam di Maryam Touzani (Marocco).
Angola
Al contrario, una cinematografia come quella angolana dopo The Hero di Zezé Gamboa in competizione al Sundance 2004 e Hollow City di Maria Joao Ganga(2004) primo film firmato da una regista, non si hanno notizie di rilievo.
Il giovane autore angolano Fradique, pseudonimo di Mario Bastos con il suo Air Conditioner scompiglia le aspettative dello spettatore. In un clima di surrealismo urbano, vediamo precipitare dai palazzoni di Luanda i condizionatori, che a volte si schiantano sui marciapiedi, a volte sulla testa degli ignari passanti, per quanto avvertiti della nuova calamità che assume dimensioni di biblico avvertimento. L’inerme presenza della guardia giurata che fa da protagonista, che neanche può sentire gli schianti per problemi all’udito dovuti alla guerra (anche lui un veterano come il Vitorio di The Hero)e che percepisce la realtà che lo circonda con una sorta di comunicazione telepatica o piuttosto apatica, è la guida che ci mostra una metropoli africana contemporanea, di giorno e di notte, in mezzo al traffico e dall’alto dei palazzi, occhio vigile ma distaccato. Sempre pedinato alle spalle dalla macchina da presa, in un andamento di gentile follia zavattiniana, la guardia Matacedo è sostenuto dall’amicizia della governante del padrone del palazzo, come un suo alter ego dal piglio energico e pratico.
Mentre arrivano in tutti i megastore i ventilatori cinesi, pronti non a caso sul mercato, il padrone si oppone alla perdita del suo condizionatore («non mi interessa se gli altri condizionatori cadono, il mio non deve cadere». )La governante vigila e se lo va a riprendere dalla bottega di materiali elettrici da cui non esce mai niente di riparato, ma dove sono custoditi sogni e ricordi e l’evocazione di un luogo lontano sul mare, là dove crescono le piante di casuarina e dove non si prova la stessa solitudine della città. È un antro da cui attingere qualche sprazzo di libertà lisergica espressa in una magnifica scena di «viaggio».
Fradique, classe 1986 ha studiato a New York e San Francisco, ha una interessante formazione di documentarista, materia solida del suo lungometraggio ma di cui distilla solo l’elemento surreale, influenzato anche dalla letteratura, in particolare, sottolinea lui stesso, dal romanzo El reino das Casuarinas di José Luis Mendonça scrittore che ha partecipato alla guerra per l’indipendenza. Indipendencia è il documentario che Mario Bastos ha realizzato nel 2015 con rari materiali di repertorio, interviste ai protagonisti di quarant’anni di lotte per l’indipendenza dell’Angola, dove si cominciava con il delineare le differenze razziali stabilite per legge, le differenze con l’apartheid di altri paesi colonialisti, la suddivisione dei quartieri di Luanda (che in Air Conditioner prende forma in luoghi e personaggi) l’organizzazione clandestina e l’adesione degli intellettuali portoghesi, l’emigrazione dei movimenti di liberazione verso il Congo che aveva già ottenuto l’indipendenza, la trasformazione dei movimenti in esercito addestrato.
Sudan
La storia di un altro paese africano, il Sudan è appena suggerita ma emerge in maniera stupefacente anche nel magnifico Talking about Trees di Suhaib Gasmelbari (classe ’75, studi a Parigi, qui al suo esordio) già premiato come miglior documentario alla Berlinale 2019 e premio Fipresci a Instanbul. È soprattutto la storia della grande passione per il cinema, in un paese dove il regime ne ha quasi cancellato il ricordo, un episodio di resistenza intellettuale suggerita anche dal titolo: di cosa si può parlare in un regime dittatoriale travestito da democrazia se non di argomenti generici e che non inviti a pericolosi dibattiti? La sala cinematografica qui appare in tutto il suo aspetto di spazio democratico e quindi pericoloso, da tenere ben chiuso. Un gruppo di cineasti, amici da sempre decidono di aprire una sala a Karthum.
Sono Ibrahim Shadad, Manar Al Hilo, Suleiman Mohamed Ibrahim e Altayeb Mahdi, appartenenti al «Sudanese Film Group» (di cui fa parte anche Hana Abdelrahman Suliman che scioglie tutti i problemi burocratici). Colleghi e amici dai tempi della giovinezza, attivi negli anni ’60, formati chi in Germania, chi al Vgik di Mosca, li vediamo intenti a rimettere a posto la loro cineteca, riprendere dalle scatole gli obiettivi Arriflex, le cineprese 16mm, i proiettori e i copioni di film non realizzati, dopo il colpo di stato dell’89 con la chiusura di sale e produzioni.
I nomi di quei registi ritornano alla mente, da lontani festival del cinema africano, Altayeb Mahdi autore di La stazione e Il sepolcro (’89), Ibrahim Shaddad autore di di Al-Gamal (Il Cammello, ’89). Con un pulmino vanno nei villaggi, montano uno schermo e mostrano Charlot, ma anche il celebre Heremakono di Abderramane Sissako. Poi cominciano a pensare di far rinascere una sala vera e propria, scelgono la sala «Rivoluzione» chiusa da tempo, accanto a un frequentatissimo campo di calcio, circondata da ben sei moschee che mettono in funzione gli altoparlanti all’ora della preghiera.
Li invade uno struggente percorso organizzativo che ricorderà parecchie cose a tutti quelli che hanno fondato i cineclub e a tutti quelli che li hanno dovuti chiudere. I cineclub sono pericolosi ovunque, troppe idee in circolazione. Una meravigliosa storia d’amore per il cinema.
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