Apologia dei cattivi maestri. Questo potrebbe essere un sottotitolo per il Ground Music Festival, seconda edizione, nella provincia di Brescia e più precisamente in Franciacorta. Concepito come una manifestazione “esperienziale” e perciò itinerante tra Chiese, cantine e vigne il GMF ha proposto quattro giorni all’insegna di jazz non allineato e vignaioli indipendenti.

Nel programma Simone Graziano Frontal, i nordici Angles 9, Alessandro Stefana,Trapper Keepers, Les Enerves. Ma soprattutto il tedesco Peter Brötzmann che giusto cinquant’anni fa scagliò la sua molotov sonora nel panorama del jazz europeo: quel Machine Gun che ancora oggi costituisce una esperienza d’ascolto sconvolgente. Era l’estetica dell’urlo rabbioso e devastante; musica senza compromessi con “lo stato delle cose esistenti”. Su un palco montato in mezzo ai filari a Monticelli Brusati con vista sulla vallata ha incrociato le sue ance insieme ai tamburi e ai piatti del batterista afroamericano Hamid Drake. Fra i due empatia perfetta. Drake è una macchina poliritmica implacabile in grado di coniugare potenza e leggerezza. Estrae mille colori dalle pelli e dai metalli e mette nelle migliori condizioni il sassofonista. Il quale, traguardati i settantasette anni, ha mutato non poco il suo modo di suonare.

La padronanza dell’emissione e delle dinamiche adesso è al servizio di un lirismo affinato con il tempo. Il suono tellurico si stempera in dolcezze inaspettate che spuntano da melodie cantabili, accenni di blues, derive folk. Vengono in mente musicisti come John Coltrane e Albert Ayler per come innalza canti primordiali, la cui semplicità è esaltata dalla forza e dall’intensità. Ma sono riferimenti che servono più per connettere Brötzmann alla grande tradizione del jazz piuttosto che a descriverne il profilo strumentale che rimane estremamente personale con una grana sonora densa come il catrame, quell’inabissarsi in suoni strozzati, mugolii e urli per poi riemergere con sorprendenti, e commoventi, suoni flautati.

La controprova della sua forma e ispirazione il musicista tedesco l’ha fornita nel concerto solitario domenicale nella Chiesa di San Michele a Ome. Alternandosi a Sax tenore, tarogato e clarinetto in metallo ha presentato una performance convincente e altamente godibile. Qui si è concesso ancora di più a motivi riconoscibili estratti dalla sua memoria tra i quali una potente Driva’ Man di Max Roach contenuta nel fondamentale manifesto antirazzista We Insist! Max Roach’s Freedom Now Suite del 1960. Bene ha fatto il festival lombardo a permettere di ascoltare in due occasioni un musicista così importante e influente. Un “cattivo maestro”di una stagione politicamente irripetibile ma le cui intuizioni estetiche hanno prodotto un onda lunga in grado di lambire anche il nuovo millennio.

A questo proposito è stato istruttivo, oltre che appagante, ascoltare il trentenne Antonio Raia. Il sassofonista napoletano ha presentato, in apertura del solo di Brötzmann, due brani del lavoro Asylum, di prossima uscita per l’etichetta Clean Feed. Raia appartiene alla nuova generazione di musicisti e improvvisatori che guarda alla scena jazz-core dei Mats Gustafsson e Colin Stetson. Non si avvale di elettronica ma invece cerca l’ampliamento espressivo nel soffio, nel respiro, nello sfregamento dell’anello sulle chiavi dello strumento, fischiando il motivo che poi riprenderà al sax. Ha una precisa idea drammaturgica della performance e trasuda passione. Il secondo brano proposto si intitola Refugees e l’intero disco è dedicato, tra le altre cose, all’asilo politico. Piccoli cattivi maestri crescono.