A Marino Magliani, entrato in dozzina all’ultimo Strega con Il cannocchiale del tenente Dumont (L’orma 2021), piace chiamare «regale marginalità» una certa scrittura in cui riconosce modelli e affini. In compenso la sua prosa ha un che, si sarebbe detto un tempo, di universale. Chi ha letto il romanzo in questione ha potuto conoscere cosa significhi impiantare una storia sulla condizione randagia, in questo caso incarnata da tre disertori dell’esercito napoleonico sfuggiti alla battaglia di Marengo e braccati dalla polizia segreta, per poi osarvi una scrittura del paesaggio fra il terragno e il visionario, materiale e assoluta al contempo. Ecco, quello è il Magliani più poetico, che sorprende con regionalismi rari o slittamenti lessicali inusitati e una prosodica avvolgente. La stessa che, nelle sue pagine più votate alla trama, si trattiene a favore di una maggior prossimità ai personaggi, ai loro aneliti nascosti e alle loro malinconie.

È IL CASO, quest’ultimo, anche dei racconti con cui Magliani torna ora in libreria, pubblicati per Italo Svevo con titolo Peninsulario (pp. 176, euro 16). È l’autore a spiegare, in una breve nota al testo, che le «penisole» sono le vallate aspre del Ponente ligure in cui le cinque storie sono ambientate, in un arco di sole che va dalla Valle Impero fino alla saldatura irregolare che segna la frontiera tra Italia e Francia; mentre nella prefazione Filippo Tuena, oltre a scorgere una parentela con il Calvino delle Città invisibili, coglie un «sapore amarognolo» che attraversa i racconti, quello di un ricordo che non sazia abbastanza. È qualcosa che alla lettura si sente soprattutto nel primo testo, dedicato a Manico, un vitellone di provincia che, dopo decenni, il narratore ritrova nella sua terra d’origine sempre dedito al solito passatempo: quello di «abbordare le turiste», soprattutto d’estate, scansando così la rovina che l’altro invece si sente addosso. Meno impietosa è la voce narrante del terzo racconto, L’uomo veloce, dove si sente di più la finzione autobiografica, con un narratore-scrittore che dalla propria prosa pretende «il puro ritmo dettato dal paesaggio». Ma il magnate milanese dell’editoria che egli insegue in queste pagine, perseguendo la propria affermazione, non pare destinato ad assecondarne i sogni.

GLI ALTRI PROTAGONISTI si discostano di più dall’autore reale, ma ne riconfermano per altre vie la confidenza con lo scacco incombente, un fallimento sempre scansato con le risorse del gioco e della meraviglia: Zanellu senza dubbio, «sbirro sardo» in servizio vicino alla frontiera che s’inventa una missione di procacciamento d’hascisc con lo spacciatore più solido del territorio, così da riavere lui stesso del lavoro, quel tanto che basta da averne un merito di sussistenza. Meno estroso e più razionale è Jantje, olandese trapiantato in Val Prino alle prese con la ricostruzione di un muro di confine tra il proprio terreno e un vigneto altrui, cui gli autoctoni però non guardano con la sua stessa soddisfazione. E qui si vede come Magliani, con piglio quasi verista, sa trarre forza narrativa da un obiettivo tanto semplice, fatto di carriole su e giù per i versanti, cazzuolate di malta e colate di cemento.

Colpisce di questi racconti una destrezza naturale, priva di cedimenti, che culmina nell’ultimo e più lungo testo del volume. Il cuculo è la storia di Secondo, perdigiorno di Oneglia che a forza di oziare nei pressi del porto entra in confidenza con l’uomo che, gli diranno, è «uno degli esseri più spregevoli» del circondario. Eppure sulle prime sembrerebbe un amico, uno che presto si presenta con la Panda – sempre con quel sedile del passeggero sfondato – carica di olio e verdura, tanto da ventilare a Secondo e consorte un commercio redditizio, a patto che si appronti il magazzino sotto casa.

MA È L’INIZIO di qualcosa che si fa via via più invasivo e sospetto, fino a violare le pareti domestiche e a erodere con trucchi surreali la stabilità psichica del protagonista. Non basterà tuttavia che una voce gli giunga a insinuare che U – così il narratore abbrevia sornione il nome del losco Umbertin da Posta – è uno che ruba le mogli agli altri e a volte pure i beni. Secondo è tale di nome, di sorte e pure d’indole, sicché l’epilogo fattuale, di per sé drammatico, trova un rovesciamento estremo ma coerente nel commiato del nostro tra lazzo e obbedienza. Ed è solo l’ultimo tocco di una composizione impeccabile, che produce in miniatura il godimento chiaroscuro delle grandi narrazioni.