Cultura

Esi Edugyan racconta un mondo plasmato dall’idea della razza

Esi Edugyan racconta un mondo plasmato dall’idea della razza

L'intervista Parla la scrittrice nata e cresciuta in Canada da genitori ghanesi, autrice di «Le avventure di Washington Black» (Neri Pozza), un romanzo di formazione che si fa denuncia. Dalla tratta degli schiavi alla crisi del multiculturalismo, Edugyan ha intrapreso da tempo un itinerario per analizzare pregiudizi, identità e appartenenze

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 12 ottobre 2019

Washington Black è solo un bambino quando lo incontriamo la prima volta, intorno al 1830: un piccolo schiavo della Piantagione di Faith, nell’isola caraibica di Barbados, destinato ad una vita di sofferenze, di lavoro, magari fino a morirne, di botte e prevaricazioni. Eppure, inaspettatamente, lo vedremo crescere, apprendere cose che pochi tra i suoi coetanei hanno anche solo immaginato. Seguirà uno dei suoi padroni, naturalista e scienziato improvvisato, inventore di un «Nemboveliero», un pallone aerostatico ancorato a una navicella fatta di vimini e legno, in un viaggio all’altro capo del mondo, dall’Artico al Marocco, fino alla convulsa metropoli dell’Impero, Londra. Avventure, esperienze e conoscenze apprese che, molti anni più tardi, non impediranno alla sua condizione di ex schiavo, e al razzismo che lo ha rimpiazzato lontano dalle piantagioni coloniali, di irrompere nuovamente nella sua vita, quasi a riacciuffare ancora una volta quell’anima che pensava di essersi liberata per sempre dalle proprie catene.

Esi Edugyan

Nata e cresciuta a Calgary, nella provincia canadese dell’Alberta, da genitori originari del Ghana, con Le avventure di Washinghton Black (Neri Pozza, pp. 398, euro 18,00) Esi Edugyan prosegue il suo itinerario all’interno delle forme mutevoli del razzismo, l’eredità del pregiudizio nelle vite degli individui e il modo nel quale le culture diasporiche e le minoranze si misurano con tutto ciò. Un percorso inaugurato dal suo romanzo d’esordio, The Seconde Life of Samuel Tyne (2004), ancora inedito nel nostro Paese, che descriveva gli sforzi, vani, compiuti da un immigrato ghanese in Canada alla fine degli anni Sessanta per insediarsi nella zona che un secolo prima aveva accolto gli schiavi in fuga dagli Stati Uniti e dove scoprirà invece una vicenda, pubblicamente rimossa, di rigetto e violenza razziale. E proseguito con Questo suono è leggenda (Neri Pozza, 2013), la storia di un jazzista figlio di una donna tedesca e di un soldato africano delle truppe coloniali francesi, che a migliaia combatterono in Renania nel corso del Primo conflitto mondiale, costretto a fare dolorosamente i conti con l’ascesa al potere dei nazisti.

Tra gli autori più significativi della nuova letteratura canadese, Edugyan sembra così dare voce non solo ai protagonisti ma anche ad una sorta di memoria di lungo corso della presenza africana nella storia dell’Occidente e del carico di violenza, privazione e tradimento che l’ha accompagnata e accompagna ancora oggi. Un’analisi che per la scrittrice 41enne muove dalla stagione della tratta degli schiavi per giungere fino alla crisi del multiculturalismo canadese, argomento su cui si è soffermata in Dreaming of Elsewhere: Observations on Home (2014), una raccolta di interventi sul tema dell’appartenenza, dell’identità e delle radici, vere o presunte, che nutrono spesso sia le retoriche razziali che la cultura delle comunità diasporiche.

Leggendo la storia di Washington Black viene subito da pensare ai racconti di Jules Verne. Eppure in questo caso la dimensione dell’avventura incontra quella della denuncia dello schiavismo.
Mano a mano che progredivo nella stesura del romanzo, mi sono resa conto che la forza di quanto stavo scrivendo poteva risiedere proprio nell’incrocio tra questi due elementi. Quella di Washington Black è una storia post-schiavitù, parla cioè di un uomo che cerca il suo posto nel mondo dopo un’infanzia di traumi e repressione. Per lui, essere in grado di avventurarsi anche oltre i confini della piantagione genera autentica meraviglia per ciò che la vita può essere. E volevo che il lettore condividesse quella medesima scoperta. Anche perché si tratta di un elemento che si ritrova in molti scritti di schiavi che hanno avuto modo o sono stati costretti loro malgrado a viaggiare, come L’incredibile storia di Olaudah Equiano, un bambino nigeriano che nel Settecento fu rapito e portato nelle Americhe per lavorare in una piantagione.

La vicenda di Washington sembra comporsi in una sorta di romanzo di formazione: ha scelto questa via per descrivere il suo possibile percorso verso l’emancipazione?
A mio avviso è come se i suoi viaggi rappresentassero la manifestazione esteriore dell’inquietudine della sua psiche: incarnano la lotta per la vera libertà che sta cercando, e anche un forte desiderio di trovare una casa degna di questo nome, che non sia quella dei suoi padroni nella piantagione, l’unica che ha conosciuto per la prima parte della sua vita.

Washington, come già il jazzista Hieronymus Falk, è costretto ad esprimere il proprio potenziale in un mondo che non è però disposto a considerarlo al pari di un altro essere umano, ma solo in base al colore della pelle. È questa la prima conseguenza del razzismo, oggi come ieri?
Questo è davvero l’effetto più dannoso del razzismo: che le tue abilità, i tuoi talenti, siano messi in discussione basandosi semplicemente su attributi fisici. Tutto ciò ha poi una conseguenza ancora più terribile. Vale a dire che tu stesso arrivi a mettere in discussione tali abilità, o che non sarai mai in grado di riconoscerle fino in fondo. La perdita di potenziale è catastrofica: per generazioni le persone sono state sistematicamente schiacciate o annullate, fino quasi a scomparire dallo spazio pubblico.

Il ragazzo scoprirà solo dopo la sua morte che la donna che ha lasciato nella piantagione, per seguire il padrone nei suoi viaggi, era in realtà sua madre. Oltre a ridurre gli individui a semplici corpi, la schiavitù ha cercato di cancellare i legami, le radici, la memoria stessa degli individui. Una ferita che arriva fino ai giorni nostri?
Senza dubbio. Anche perché dopo l’abolizione della schiavitù, in particolare negli Stati Uniti, alle vittime fu negata, e per legge, qualsiasi espressione significativa delle libertà personali. Furono varate norme che vietavano loro la proprietà fondiaria, che gli impedivano di svolgere lavori che non fossero quelli manuali, che gli impedivano di votare o anche semplicemente di passare per alcune strade delle città. E la criminalizzazione delle piccole trasgressioni a queste norme che seguì la fine della schiavitù, può essere letta come l’annuncio di quella stagione di incarcerazione su larga scala di corpi neri e di negazione dell’accesso all’istruzione cui assistiamo ancora oggi.

Il protagonista di un altro suo romanzo, Samuel Tyne, fa i conti con il razzismo della società canadese, malgrado nel Paese la schiavitù fosse stata abolita già nel 1818. Condivide le sue perplessità sul Canada?
Vivo in un’epoca molto diversa dalla sua. E, malgrado le difficoltà, mi posso permettere uno sguardo più positivo sul mio Paese. Il problema è che il Canada, dove terminava, nell’Ontario, la famosa Underground Railroad, utilizzata dagli schiavi fuggitivi dagli Usa (La ferrovia sotterranea raccontata da Colson Whitehead in un celebre romanzo, ndr), ha rimosso dalla sua storia collettiva tutte quelle ombre che riguardano sia come sono state trattate le popolazioni autoctone che lo stesso coinvolgimento nello schiavismo. Ad esempio, il merluzzo salato veniva scambiato con il rum e lo zucchero prodotto dagli schiavi nelle Indie occidentali o per molti grandi opere si ricorreva ad imprese straniere che utilizzavano nei fatti lavoro schiavistico.

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