Macula, pubblicata da Ensemble (pp. 68, euro 13), è la prima raccolta poetica di Letizia Polini, giovane autrice marchigiana residente a Bologna, dove lavora come insegnante; e ne segna dunque l’esordio in forma compiuta, dopo una serie di apparizioni su riviste.

Si potrebbe dire che si tratta di una raccolta sul «vedere», a voler prendere alla lettera l’indicazione di senso proveniente dal titolo, essendo la «macula» la zona centrale della retina, e la più sensibile. Ed è in effetti proprio da questa constatazione che muove lo stesso Umberto Piersanti, nella prefazione, per sottolineare come tutta la raccolta sia attraversata da un contrasto fra la volontà di comprensione delle cose per mezzo dell’osservazione, da un lato, e «l’oscurità del mondo» da un altro lato. O meglio da «uno sforzo, una fatica nello sguardo», come scrive Piersanti, «che forse si compenetrano e confondono con le difficoltà del vivere».

Ma cosa vede, esattamente, Letizia Polini? Quali sono le scene che le si presentano davanti agli occhi, che la sua sensibilità intercetta, che il sguardo tramuta in poesia? Sono scene di dolore, potremmo rispondere, e lo sono a tal punto che Macula potrebbe essere definito anche così: come un libro sul dolore, come se le poesie che lo compongono rappresentassero, una dopo l’altra, altrettanti esercizi di dolore.

E DEL RESTO la stessa Letizia Polini lo dichiara esplicitamente, nella poesia che non a caso chiude la raccolta: «C’è liberazione in questi/ esercizi di dolore/ in questi abbandoni».

Sono dolori di ogni genere: intimi e familiari, pubblici e sociali, privati e personali tanto quanto politici e collettivi; a volte reali, altre volte forse solo immaginari; vissuti e sognati, passati e presenti, diurni e notturni. Sono dolori di ogni genere anche perché appartengono non solo alla vita dell’io poetante ma anche a tutti coloro le cui esistenze l’io poetante vede scorrere, appunto, intorno o davanti a sé, e che per questo motivo si confondono con la sua, come se formassero tutte insieme un’unica vita, un’unica memoria, un unico e comune destino.

Come a sconfessare, qui, come accade di rado, quel principio universale che De André riassumeva nel verso secondo cui «il dolore degli altri è un dolore a metà»: qui non esiste neppure «un dolore degli altri», esiste un solo dolore, di tutti e di ciascuno, che Letizia Polini racchiude interamente nel proprio «vedere», nel proprio sguardo.

E tuttavia non è un dolore senza scampo, irredimibile. Per quanto faticoso sia lo sguardo, Macula sembra comunque contenere anche quelli che Umberto Piersanti chiama dei «bagliori», e cioè un possibile riscatto, un possibile orizzonte di luce.

ED È IL RISCATTO, o la luce, che può offrire solo l’incontro di un’esistenza con un’altra, e quindi solo l’irruzione nelle nostre vite di un corpo altrui, come una rivelazione. È quasi come se Letizia Polini volesse infine rovesciare il senso apparente della propria raccolta e del suo titolo, come se alla fine volesse dirci questo, paradossalmente: attenzione, non basta «vedere», non basta stare a guardare, perché è con il corpo, e non con la vista, che bisogna entrare nelle vite degli altri e che le vite degli altri devono entrare nelle nostre.

Non basta essere occhi, occorre «Essere scheggia che affonda/ per gocciolare d’altri»; occorre essere corpi che abbiano il coraggio di penetrare nel mondo anche a costo di «precipitare». Occorre «vedere», sì, ma anche e soprattutto vivere, in prima persona, e toccare.