«È notte e un altro mondo sta sorgendo. Aspro, cinico, analfabeta e gira senza scopo» aveva scritto Philippe Sollers citato da Godard. Siamo al difficile inizio, abitanti di quella che Marco Pacini, nel suo saggio chiama la nostra Zona critica, il cui sottotitolo è Esercizi di futuro tra ecologia e tecnologia (Meltemi, pp. 165, euro 15). Zona Critica è il luogo in cui, come in un romanzo di Joseph Roth, gli eventi «possono prendere una piega inaspettata». C’è qualcosa di inevitabile nello sforzo umano, che discende pericolosamente dal mondo della fantascienza e inaugura una serie incontrollata di eventi catastrofici. Nel secolo in cui la letteratura è ridicolizzata fino all’osso, nei giorni in cui folli miliardari, protetti nei loro bunker, giocano ad inserire neurochip nei cervelli di topi antropici, «parlare di umano o di civiltà», nota a ragione Pacini, rischia di essere persino complicato.

Siamo alla guerra in cui, nella simmetria di Pacini, i rivoluzionari californiani non sono altro che generali che scorrazzano nei territori tecno-sociali, mentre l’altra guerra, di sangue e morti, sembra compiersi in un qualche metaverso. Il tempo che avremmo attribuito all’essere umano finisce così per essere un peso e l’invecchiamento è soppresso in un presente iperesteso, lontani anni luce dalle meraviglie di Ur, dalle necropoli etrusche in cui la morte era sempre un momento.
Ma, verrebbe da chiedersi, «quanto di tutto questo è davvero inevitabile? Fino a quando sarà possibile sottostare alla favola tecnologica?». Han scrive che ormai non è possibile una rivoluzione, infilandosi in quella pericolosissima scia di documenti alla Huntington che marcano subdolamente – e in realtà proclamano – la necessità di allontanare il pubblico dalla politica, l’uomo dalla storia. Eppure, al contrario, non soltanto la rivoluzione è oggi possibile ma è anzi divenuta necessaria.

CHE SIA DOVEROSO un nuovo luddismo? Se è vero che «la modernità, diremmo meglio la storia, non sia un processo univoco, né sincronico», allora dovremmo alzarci dal tavolo di gioco cominciando col dire che non siamo mai stati moderni. Del resto, sosteneva a ragione Borges, neppure i futuristi lo sono mai stati. Occorrerebbe fermarsi: entrare in una chiesa come in un tempio, alzare la testa rivolti alle stelle e non soltanto a uno schermo.
Ora che abbiamo delegato alle macchine – come ha scritto Zellini – «non solo i nostri calcoli, ma anche le ragioni più riposte per le quali questi sono stati ideati». E proprio quelle ragioni le abbiamo con facilità rimosse. Eppure, sebbene i futurologi non l’abbiano letta e i programmatori l’abbiano appena riaggiornata la storia non ha mai smesso di guardarci. L’apocalisse è in questo senso già avvenuta: «non in quanto destino ma in quanto rivelazione». Occorre prenderne coscienza, interessarsi, come Marco Pacini, ai meccanismi sofisticati del nostro tempo critico, beninteso, pronti a riprendere in mano quella vita che ci è stata apertamente sottratta.