Cosa distingue una lirica “ben fatta” da una “grande lirica”?», «Che cos’è un classico?». Chi conosce l’opera critica di Pier Vincenzo Mengaldo, in particolare i cinque volumi della serie Tradizione del Novecento, splendida e originalissima ricognizione delle vicende letterarie del secolo passato, dove l’interpretazione e la teoria vanno di pari passo, non si sorprenderà certo di fronte a domande come queste, che Mengaldo avanza, impavidamente, nella recente raccolta di contributi intitolata Dalle origini all’Ottocento Filologia, storia della lingua, stilistica (Edizioni del Galluzzo, pp. 282, € 38,00), domande che investono questioni fondamentali della critica e dell’estetica tout court. Anche in questi saggi l’esercizio formale – che si esercita lucidamente sulla sintassi, sulla metrica, sulle varianti, sugli elementi minimi del testo – è reso funzionale a ben altro: tende sempre a individuare le pulsioni stilistiche, la «forma interna» di un’opera, il suo «senso».
A partire dalla sintassi, attraverso una serrata analisi degli «effetti di legato» nella Storia d’Italia del Guicciardini, che corrispondono alla sua idea del meccanismo storico come complessità e intrico, ma anche della tecnica opposta del disgiuntivo, dello «staccato» – dove l’avversativa, il Ma, «penetra come un cuneo e un improvviso nei preordinati grovigli o poliedri che la precedono» — si giunge a cogliere la peculiarità della sua sintesi razionale. In Guicciardini «natura umana e decorso storico sono non soltanto complessi, ma sempre e implacabilmente conflittuali … L’unità dei fatti interpretati dalla ragione viene intaccata, e contrario, dalla varietà e imprevedibilità di altri e specifici fatti … dalla dinamica dell’improvviso». E nella sintassi della lirica di Manzoni, così estranea alla tradizione petrarchesca, così opposta all’effusione soggettivistica dei romantici, dominano la sintesi e l’ellissi, la concisione e l’asindeto. Manzoni tralascia l’eccedenza delle modalità d’espressione, mirando all’essenzialità e alla trasparenza verso il contenuto, con «una mirabile sconnessione e asprezza, sempre sull’orlo di una vertigine». Così l’analisi dei fenomeni ricorrenti nell’epistolario di Verdi – con Giulio Ricordi, con Francesco Maria Piave, con Arrigo Boito, con Salvatore Cammarano … — è orientata, viene ad essere una «manovra» volta a cogliere una pulsione stilistica riconducibile ad alcune caratteristiche salienti: «brevitas, espressività, colloquialismo e informalità, strutturazioni logiche, agonismo e centralità dell’io».
Spiccano, nella configuarazione del volume, alcuni grandi autori che sono a Mengaldo particolarmente cari: Dante, Ariosto, Leopardi. Per Dante, contestando la tesi di una sua marginalità di inattuale in tutta la storia della letteratura italiana e di un’assoluta «egemonia petrarchesca», su cui si è fin troppo insistito, si rivendica la sua forza di «figurazione», che agisce potentemente nel Furioso, così grondante di echi danteschi, in Leopardi, «che in un certo senso è l’ultimo, quasi trascendentale rappresentante del petrarchismo italiano, ma nello stesso tempo s’allontana del tutto da Petrarca ed è invece il vero erede di Dante in quanto poeta concettuale», in Pascoli. Di più, i metri del Canzoniere di Petrarca sono danteschi, con variazioni non di fondo, e per la massiccia influenza della lingua della Commedia «lo stile lirico di Petrarca si lascia alle spalle la monocromia stilistica della poesia d’amore del Duecento, fino allo Stilnovo, con una tavolozza – rispetto a quella – incalcolabilmente più ricca, varia e sbalzata». E questo significa che, da quel momento, ogni stile lirico dovrà istituirsi anche attraverso la memoria della Commedia. E nel Novecento, accanto alla dominanza del gesto dantesco in Rebora, Montale, Caproni, Fortini …, la linea di suggestione petrarchesca può aprirsi, come nell’ermetico Luzi, per accogliere in sé anche quella della Commedia. L’espressionismo della figurazione e l’intenso pluristilismo della Commedia – così si argomenta nel saggio Dante come critico, dove Mengaldo ripercorre le valutazioni ad personam che Dante formula tra De vulgari eloquentia e Commedia, con vivacissimi contrasti ed equilibri che coinvolgono Guittone, Guinizzelli, Cavalcanti, Onesto da Bologna, Bonagiunta, Cino da Pistoia – spiegano anche la solennità dell’investitura di Arnaut Daniel, in Purgatorio XXVI, una volta che il «vecchio arnaldismo» si è liberato delle scorie della sua asprezza altamente tecnicistica.
Ariosto. Negli equilibri interni dello stile del Furioso si entra attraverso l’analisi di un fenomeno microscopico: la preferenza per la parola intera invece della forma tronca quando segue parola che incomincia per vocale (per es. lasciare il campo invece di lasciar). Questo fenomeno, apparentemente marginale, insieme al particolare trattamento che Ariosto riserva al distico finale di ottava – è il saggio Sulla rima a ritroso nel “Furioso” – con effetti di condensazione, di parallelismo, di raffinato fonosimbolismo, è una delle condizioni – contrapponendosi all’effetto di «staccato» indotto dal ritmo accentuativo e dalla stessa discontinuità degli eventi narrati — della sovrana scorrevolezza del poema. Di fronte alla libertà giocosa e quasi anarchica di Boiardo, troviamo qui «la capacità di comporre – diciamolo pure: armonicamente – spinte espressive opposte anche nel minimo dell’ottava».
Quello dedicato a Leopardi – Leopardi e il classico – è il saggio più inquietante e più audace della raccolta. Mengaldo procede per approssimazioni, per «impressioni», come lui scrive. Classico è chi è capace di «meraviglia», non solo di fronte al nuovo ma anche di fronte al ritorno, effettivo o memoriale, del consueto. Classico è colui che riassume in sé, con devozione e libertà, tutta la propria tradizione, dove il fitto dialogo leopardiano con la tradizione nostra non può essere separato dal drammatico tentativo di riagganciarsi a un’antichità che è del tutto irrecuperabile. È tendenza specifica dei grandi classici di lavorare per sottrazione, si pensi all’«attenuazione classica» affermata da Spitzer per Racine. «Arte del levare» che si rivela, per Leopardi, nella «chiarezza» e nella «semplicità» (Zibaldone), nel tono familiare, nel fortissimo carattere «orale» — «dove sta pure una ragione del suo esserci così fraterno» — del suo discorso poetico.
È destino di molti grandi classici di essere, e quasi nascere, «inattuali», così anche Hölderlin, così Mahler. Ogni grande classico è abitato da un forte pensiero, che è un pensiero poetante: in Leopardi un nichilismo assoluto e ultimativo, «per cui è così commovente il suo senso della vitalità e del valore affettivo delle creature umane e del paesaggio». La serie delle approssimazioni si conclude con un «azzardo», «con una categoria certo poco “scientifica”, ma non importa»: grande classico è colui «la cui voce ci risuona irresistibilmente nella mente leggendo o ascoltando un altro grande classico». Così, sentiamo la voce di Leopardi, irresistibilmente, con Pascal, Chopin, Hegel, Kafka, Schubert. «Non si può non ricordare il Pastore errante, quando si ascolta la Winterrreise di Schubert».
A più di un lettore questi saggi non mancheranno di far venire in mente l’opera di Roberto Longhi, il nostro massimo storico dell’arte, per la libertà di pensiero, fino all «azzardo», per la capactà di animare e raccontare, per la scelta di assegnare allo stile l’ufficio di fissazione della verità, e di considerare, come punta di diamante della critica, il «giudizio di valore».