Non è ancora chiaro, mi sembra, quale sarà l’effetto a lungo termine di questa guerra che già ci appare infinita, orrenda, e suscita sentimenti contrastanti: chi si schiera animosamente da una parte, e chi dall’altra; chi si lascia prendere dalla paura; chi teme conseguenze insopportabili per un tenore di vita già troppo basso e incerto; chi si lascia annichilire da un senso di impotenza. Chi si attiva senza riflettere bene in vista di che cosa…

Ciò che mi scandalizza – è stato il mio mestiere – è la corruzione del linguaggio dell’informazione. È chiaro che Putin è l’aggressore e Zelensky l’aggredito, e che le conseguenze dell’invasione stanno procurando a tutto il popolo ucraino sofferenze indicibili.

Non solo le vittime militari e civili, ma le vite o distrutte o messe a dura prova dei milioni che scappano in altri paesi – per lo più donne, bambini e vecchi – o che si spostano all’interno dell’Ucraina in cerca di luoghi più sicuri, cercando di mantenere legami con le persone amate, soprattutto quelle che per un motivo e per l’altro rischiano la vita. Uguale compassione mi suscitano i massacri a cui vanno incontro i soldati russi, spesso giovanissime reclute a quanto pare poco consapevoli della tragedia a cui sono stati assegnati.

Ma veder ripetere la parola «eroi» per chi difende «la patri», e il capo della Russia costantemente chiamato «lo Zar», in senso ovviamente dispregiativo, quando non si usano immagini ben più volgari, mi procura un forte disagio. Un’altra espressione abusata è il «ventre molle». Il rilassamento dei tessuti delle nostre pance in cui staziona il cibo e circolano tanti umori equivoci viene ora attribuito a chi, forse perché ha dubbi e pone domande sul modo di condurre la guerra anche da parte «nostra», viene sbrigativamente definito filo-putiniano. Oppure è tutta intera l’Italia a essere avvisata: se qualcuno esagera a interrogarsi su come arrivare a una tregua, aprire uno spiraglio di pace, piuttosto che con quante e quali micidiali armi «vincere la guerra», sappia che produrrà la mollezza del ventre che aprirà un varco esiziale ai nemici dell’intero Occidente.

Quando Zelensky, durante l’assedio russo a Azovstal, ha detto che gli «eroi» servono «vivi», preannunciando l’ordine ai suoi soldati e a quelli del battaglione Azov di arrendersi, ho reagito meccanicamente: ecco forse un lampo di umanità in questo orrore.
L’eroe non è tale se non rischia la vita, e molto probabilmente la sacrifica (i capi di Azov lo avevano promesso: non ci arrenderemo mai!). Ma meglio sarebbe che restasse vivo. E quell’essere vivo è qualcosa di molto più importante dell’essere eroe. La domanda che mi sta a cuore è questa: davvero servono ancora gli eroi?

Il loro tempo sembrava finito. E se ritorna dobbiamo chiederci il perché.
C’è il passo arcinoto del Galileo di Brecht. Quando Andrea Sarti aspetta l’esito del processo, ed è sicuro che Galileo non abiurerà, esclama: «Sventurata la terra che non ha eroi!». Poi entra Galileo, che invece ha abiurato, e risponde: «No! Sventurata la terra che ha bisogno di eroi». Il grande scienziato sopravvive al probabile rogo, e scriverà ancora capolavori teorici che cambieranno il mondo. La sua scelta è stata giusta?

In una prima versione dell’opera questo era l’assunto, ma Brecht, vivendo i nuovi orrori bellici con le atomiche in Giappone, aggiunse una scena in cui Galileo confessa di aver avuto paura della tortura e dichiara che lo scienziato ha invece il dovere di essere coraggioso di fronte al potere.
Ma oggi – dico io – l’eroismo va rifiutato: va inventata la nuova forza capace di farci vivere subito in un mondo non violento, persino gentile…