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Eroi e vittime, c’è la memoria ma non la politica

Eroi e vittime, c’è la memoria ma non la politica

Antimafie/21 marzo L’arresto del boss Matteo Messina Denaro e la scoperta delle sue relazioni con il mondo imprenditoriale e politico siciliano hanno sollecitato un pur minimo dibattito sulla necessità di ripoliticizzare la questione mafiosa

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 21 marzo 2024

Tempo fa chiamai al telefono uno studioso siciliano, appartenente a una scuola di bravi storici che non si sono limitati a studiare la mafia dentro l’accademia ma hanno preso la parola nel dibattito pubblico, provando pazientemente a contrastare cliché e luoghi comuni sulle vicende più controverse che hanno coinvolto Cosa nostra e le istituzioni di questo paese. Volevo proporgli di partecipare a un convegno accademico nel trentennale delle stragi del ’92. Gli chiesi di venire a dirci qualcosa sulla memoria e sull’antimafia come fenomeno politico, ché non se ne poteva più di visioni pacificate e legalitarie della lotta alla mafia, ché la stessa parola lotta suonava fuori luogo di fronte a uno spettacolo francamente logoro. Mi rispose che, con i tempi che corrono, tutto ciò che poteva offrirci era un intervento sulla “fine della politica”. L’antimafia convenzionale, disse, si occupa ormai per lo più delle vittime, dopo una lunga stagione in cui si era occupata soprattutto degli eroi scomparsi. Vittime ed eroi scomparsi sono in effetti le due categorie che meno ci consentono di restituire politicità alla lotta alla mafia. Le prime perché costrette nella propria condizione subalterna. I secondi perché, investiti di tutto il lavoro difficile, ci dispensano dall’azione politica, ma anche perché, per ovvie ragioni, non possono più fare molto per noi.

Come tutte le ricorrenze, la giornata in ricordo delle vittime innocenti delle mafie non è soltanto una commemorazione, ma anche un pretesto. Non soltanto per ricordarci di tenere alta la guardia di fronte a fatti gravi e pericolosi. Ma anche per fare il punto su fenomeni complessi e su come ce ne siamo occupati fin qui, su quali categorie sono ancora oggi utili per comprenderli e quali invece hanno contribuito a confondere le acque, creando cortocircuiti e semplificazioni. Per interrogarci, ad esempio, sul perché non vogliamo farci carico delle vittime che riteniamo non innocenti.

L’arresto del boss Matteo Messina Denaro e la “scoperta” delle sue relazioni con il mondo imprenditoriale e politico siciliano hanno sollecitato un pur minimo dibattito sulla necessità di ripoliticizzare la questione mafiosa. Ci sono però diversi modi per farlo.

Qualcuno ha invitato a guardare oltre i boss e gli affiliati senza tuttavia provare a individuare gli specifici meccanismi politici che alimentano il fenomeno mafioso. Secondo questa visione, le forze che muovono il potere mafioso sono quelle del mercato e dell’economia finanziaria e la mafia non è altro che capitalismo mascherato da una serie di codici culturali posticci. Liquidare in fretta la questione alludendo a una qualche forma di potere senza individuarne le caratteristiche e i soggetti è però una postura che confina con quello che più prosaicamente definiamo complottismo.

Un altro modo è quello di fare un passo indietro, tornando ai modi in cui la questione mafiosa veniva politicizzata un tempo, per ribadire che giustizia sociale e legalità sono due cose molto diverse.

E però, dopo oltre un secolo di lotta alla mafia, chi indaga e prova a contrastare questo fenomeno ha la possibilità (e quindi la responsabilità) di fare un passo avanti. Ieri come oggi, la mafia è un fenomeno che ha a che vedere con il dominio ma anche con il consenso. Non riguarda le sole frange criminali delle società che ne sono afflitte, ma anche le cosiddette classi dirigenti, specie dopo la riuscita criminalizzazione dei gruppi sociali che forniscono manovalanza e capi violenti ai clan. Per costruire una memoria politica di questa storia, dobbiamo chiederci non soltanto quali condizioni hanno prodotto le classi pericolose che oggi stigmatizziamo, ma anche quali figure sociali godono del consenso diffuso che un tempo veniva accordato a boss e affiliati. E come questo consenso permette la riproduzione di un fenomeno predatore proprio mentre scendiamo in piazza a stigmatizzarlo.

La memoria è insomma un pretesto. Come ci dice da tempo il sociologo Paolo Jedlowski, ha senso soltanto se è memoria di noi e di ciò che abbiamo ereditato. Lo stigma che abbiamo costruito intorno a tutto ciò che è mafia contribuisce a confinare questo concetto (e le persone in carne e ossa che lo popolano) in una radicale alterità, impedendo ogni forma di identificazione in una storia che pure ci riguarda.

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