Ernst Scheidegger, fotografo degli artisti ma anche della vita
Al Masi di Lugano Conosciuto per le foto di Giacometti, Richier, Max Bill, Arp, Sophie Taeuber, il fotografo di stanza a Zurigo fu anche reporter della Magnum: qui si rivela in un inedito corpus privato
Al Masi di Lugano Conosciuto per le foto di Giacometti, Richier, Max Bill, Arp, Sophie Taeuber, il fotografo di stanza a Zurigo fu anche reporter della Magnum: qui si rivela in un inedito corpus privato
La Zurigo degli anni quaranta è una città dinamica e propulsiva dove la cultura ha un ruolo centrale: è qui che Ernst Scheidegger (Rorschach 1923 – Zurigo 2016) si trasferisce nel 1927 per gli studi. Dopo una parentesi in cui si dedica alla pittura, studia fotografia frequentando, tra il ’45 e il ’48, la classe di Hans Finsler alla Kunstgewerbeschule, e diventando assistente di Max Bill. Frequentare lo studio di Werner Bischof, dove può far pratica di camera oscura, è un passaggio importante nella sua storia di fotografo: dal ’52 al ’54 collaborerà con l’agenzia Magnum Photos coprendo con i suoi reportages Medio Oriente, Mediterraneo e Sud-Est Asiatico.
Ma è difficile delineare in poche righe l’esuberanza creativa di Scheidegger, che è stato con lo stesso zelo photo editor, grafico, cineasta, gallerista, editore e anche pescatore, raccoglitore di funghi e cuoco. «Per Ernst cucinare non significava come prima cosa la gioia del mangiare e neppure del gustare il cibo, ma piuttosto rappresentava un’affidabile ancora di salvezza quando – lui che aveva un carattere irascibile – sentiva montare la rabbia», scrive Helen Grob, compagna dell’artista, nel volume Ernst Scheidegger. Fotografo. Continua: «Lavorava i pomodori in vari modi, preparava brodi di carne o di verdure sempre fresche, accompagnati da un bollito con erbe e spezie, nei primi tempi anche dei piatti di pasta. La domenica faceva la treccia al burro seguendo una ricetta di sua madre, appesa ancora oggi all’interno dell’anta dell’armadietto della cucina, tutta ingiallita. E non mancavano mai le Schuhsohlen, «suole di scarpa»: un altro dolce svizzero, preparato in versione lampo con la pasta sfoglia del supermercato, granella di zucchero e acqua. E poi c’era il piatto che salvava tutto e tutti: il polpo marinato con olio ed erbe».
Il libro (in italiano, Edizioni Casagrande) è uscito in occasione della mostra Faccia a faccia – Giacometti, Dalí, Miró, Ernst, Chagall. Omaggio a Ernst Scheidegger, curata da Tobia Bezzola e Taisse Grandi Venturi e realizzata, per il centenario della nascita, dal MASI – Museo d’arte della Svizzera italiana di Lugano (fino al 21 luglio) in collaborazione con il Kunsthaus Zürich e la Stiftung Ernst Scheidegger-Archiv.
Noto per i ritratti di artiste e artisti del suo tempo, «Scheidegger cerca di comunicare soprattutto una certa atmosfera, di rendere presente il processo creativo trattando lo spazio fotografico nel suo insieme come vettore di informazioni», scrive Philippe Büttner. Tra i numerosi ritratti esposti, il nucleo dedicato a Alberto Giacometti (i due si conobbero per caso nel ’43 a Maloja, dove il fotografo svolgeva servizio militare) è costituito da stampe vintage alla gelatina ai sali d’argento realizzate tra gli anni cinquanta e il 15 gennaio 1966, quando Scheidegger fotografa a Stampa il funerale dello scultore.
«Sorride. E tutta la pelle grinzosa del suo viso si mette a ridere. In uno strano modo. Non solo gli occhi ridono, ma anche la fronte. Tutta la sua persona ha il colore grigio del suo atelier. Per simpatia, forse, ha preso il colore della polvere»: così il volto travagliato di Giacometti per Jean Genet, e così anche nei ritratti di Scheidegger, che gli dedicherà anche un film. Ma sono presenti anche le inquadrature dal soppalco dello studio di 46, rue Hippolyte-Maindron, la tavolozza, la sigaretta accesa, lo scultore nell’estenuante ricerca della perfezione, o in piedi davanti alla casa dei genitori a Stampa. Scheidegger fotografa anche le sue sculture: Due femmes (1951 ca.), La Main e Homme qui chavire (1951 ca.), La Grande femme IV davanti all’atelier (1962). Dalle collezioni della Kunsthaus di Zurigo provengono i bronzi di Giacometti Nudo in piedi senza braccia (1954) e Diego, seduto (1965), che innescano un dialogo fluido con le foto alle pareti. In mostra anche la tela in cui (per la prima e unica volta) il fotografo diventa il soggetto del ritratto, dipinto da Giacometti durante lunghe sedute di posa, a Stampa, negli inverni ’58 e ’59.
Tra corrispondenze e rimandi, altre opere esposte sottolineano il rapporto profondo tra ars e artifex: Germanie Richier nel suo studio di Parigi (1953 ca.) e la sua scultura Il rospo (1942), La Costruzione con tre dischi circolari di Max Bill (1945-’46) e l’artista mentre insegna a Zurigo nel ’46, all’ingresso della mostra a Basilea nel ’49, nel laboratorio di ceramica di Ulma nel ’54 ca.. C’è anche Verena Loewensberg e il suo dipinto Composizione con il quadrato rosso al centro (1964-’65), la Costellazione di Hans Arp (1957) e il disegno a matita colorata e grafite Geometrico e ondeggiante di Sophie Taeuber-Arp (1941). Oltre ad Arp nello studio, Scheidegger immortala nel ’58 anche la casa-atelier di Sophie Taeuber-Arp a Meudon-Val Fleury, rimasta così come l’aveva lasciata l’artista, prematuramente scomparsa nel 1943.
Ma ciò che rende unica questa mostra, anche rispetto a quella zurighese del 1992, è il corpus di fotografie inedite, realizzate tra il 1945 e il ’55, che mostrano una libertà espressiva, sia tecnica che formale, nelle inquadrature meno convenzionali, nell’uso della grana grossa della pellicola e di uno sfocato con cui Scheidegger interpreta tematiche esistenzialiste e neo-realiste. Scatti privati realizzati con la Rolleiflex (esistevano solo negativi e provini) che mostrano il circo Knie, la scuola di danza di Madame Rousanne, i bambini, il dramma dell’Europa del dopoguerra.
«Nel suo appartamento zurighese, in Zeltweg, Ernst Scheidegger conservava una grossa scatola di cartone. L’aveva riportata in Svizzera nel 1956, al suo rientro da Parigi, e per quasi sessant’anni non l’aveva più aperta. Conteneva un centinaio di fotografie, tutto materiale che Scheidegger aveva raccolto nei primi anni cinquanta tra gli amici e i colleghi dell’agenzia Magnum, offrendo loro in cambio alcuni dei propri scatti – riferisce Tobia Bezzola –. Ma quel faldone con prove di stampa, copie redazionali, esemplari d’archivio e stampe da esposizione di grossi nomi come Werner Bischof, Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, Ernst Haas, George Rodger, Ruth Orkin e David Seymour non era solo una “capsula del tempo” o una raccolta di cimeli storici. Sotto quel coperchio, da un certo punto di vista, era sepolta anche la sua carriera di reporter e fotogiornalista, bruscamente interrotta».
La morte tragica di Bischof, a pochi giorni di distanza da quella di Capa, è la causa di quella cesura. Il rapporto con la fotografia per Scheidegger continuerà senza la macchina fotografica, sempre più connesso con la grafica, il layout, l’editoria.
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