Ernesto Franco, racconti di terre ambigue tra l’uomo e il mare
Scrittori italiani Universi paralleli, terre liminari, pianeti bizzarri e naturalissimi, luoghi privilegiati da cui osservare la vita: «Storie fantastiche di isole vere», di Ernesto Franco, da Einaudi
Scrittori italiani Universi paralleli, terre liminari, pianeti bizzarri e naturalissimi, luoghi privilegiati da cui osservare la vita: «Storie fantastiche di isole vere», di Ernesto Franco, da Einaudi
In una conferenza del 1932 intitolata «L’idea della storia naturale», Theodor W. Adorno si interrogava sulla possibilità di ripensare i concetti di natura e storia all’interno di una tensione che andasse al di là della loro consueta opposizione. L’obiettivo, scriveva Adorno, è quello di «spingere questi due concetti in un punto nel quale sia tolto il loro puro disgregarsi». Un punto, quello di cui parlava Adorno, che ha a che fare con la dimensione del “mitico”, e «caratterizza la storia umana come suo essere necessario, come suo destino», essendo, in certo modo, l’essenza stessa della storia. Attraverso il mitico l’essere storico deve essere compreso come un essere naturale e la natura, a sua volta, può essere pensata come un essere storico.
Passando attraverso il Lukács della Teoria del romanzo e il Benjamin del Dramma barocco tedesco – Adorno recuperava l’idea della «storia naturale», intesa non però come sintesi di metodo storico e metodo naturale, ma come cambiamento di prospettiva sulla realtà nel suo complesso. È in fondo dentro una storia naturale di questo tipo che sembra iscriversi il bellissimo isolario di Ernesto Franco, Storie fantastiche di isole vere (Einaudi, pp. 136, euro 17,50). Tra le sue pagine, infatti, l’elemento mitico è connesso al racconto, all’indagine fantastica sul nome delle isole e alle leggende che a quei nomi sono inestricabilmente connesse, coniugando non solo la dimensione naturale, geologica e materiale delle isole di cui si racconta con l’elemento più propriamente storico e esistenziale, ma rendendo sempre l’una traccia dell’altro, nella tensione verso un punto che, direbbe ancora Adorno, si pone al di là del loro mero differire.
Il libro è in forma di dialogo: tra un personaggio che è il vero narratore e che viene chiamato il Pilota – marinaio sapiente e di grande esperienza, conoscitore della mitologia, della storia e che cita, fra gli altri, Edgar Allan Poe, Julio Cortázar (di cui Ernesto Franco è un grande conoscitore) Stevenson, Platone, Fernando Ortiz, Melville, Darwin – e un Io che interviene di tanto in tanto, con discrezione, a volte quasi con pudore, per porre qualche domanda al Pilota e sollecitarlo così a parlare. Oppure descrive la situazione e il luogo in cui i due dialoganti si trovano, costituendo un elemento decisivo nell’economia narrativa. Il luogo è Genova, che per certi aspetti figura come il terzo personaggio della storia: città insieme aperta e chiusa, senza nord e senza sud, «tesa come una gomena fra Oriente e Occidente», dove le «ombre mimano la vita nelle strade». Una città piena di moli, che sono sempre rampe verso l’ignoto, macchine della fantasia, dove «se non salpi con una nave, lo fai comunque con il desiderio, o con i ricordi».
I venti brevi capitoli di cui si compone il libro sono racconti che da Genova viaggiano in direzione di altrettante isole: dalle Lofoten, «che si mascherano da paesaggi umani per tenere segrete la loro feroce geologia», alle Galapagos, dove ogni isola è un bestiario incarnato; da Haiti, la cui figura somiglia a una mandibola mostruosa e dove «milioni di anni di geologia profetizzano e annunciano da sempre, come in un’istantanea, la Storia», a Rodi, dove la storia sembra aver scelto come modello il mito; da Alcatraz, una sorta di Auschwitz democratica, a Carloforte, appartenente più alla storia che alla geografia; da Cuba, i cui abitanti sono metà sole e metà uragano, a Cipro, un’Asia abitata da europei; dall’Isola di Pasqua, quella che forse più di altre allegorizza la condizione odierna del pianeta, a Lesbo, l’isola dei poeti e in particolare di Saffo, senza la quale l’amore sarebbe comunque esistito, «ma con un tono di meno».
E poi Filfla, Ferdinandea, Malta, Ons, Orcadi, Tortuga, Atlantide – l’isola che non esiste come scoglio, ma esiste come racconto – Creta, Le Isole degli orsi e infine Itaca, l’isola per antonomasia, che dà senso al viaggio, dove pure nulla rimanda alla storia che l’ha resa famosa.
Nella scrittura di Franco, le isole non sono luoghi in cui la realtà tende a trasfigurarsi nel sogno, in cui la storia degli uomini del passato si confonde con quella delle pietre e dei vulcani e con quella degli dei, in cui il visibile rimanda all’invisibile, da cui riceve senso.
Natura, storia e mito, nel loro intreccio reso qui attraverso una scrittura incantata, insieme poetica e precisa, dove la fantasia apre gli occhi sulla verità, scolpiscono il carattere di queste terre ambigue circondate dall’acqua così come delle vite necessariamente anfibie che le hanno abitate e le abitano, e il loro rapporto più che di reciproca influenza appare di profonda coappartenenza.
Le isole di Franco sono universi paralleli, pianeti bizzarri e naturalissimi, luoghi privilegiati dai quali osservare la vita, senza restarne fuori e senza tuttavia entrarvi mai completamente. Appartengono a quella condizione liminale che sta tra la realtà e la fantasia, e rappresentano una dimensione ideale per tentare quella prospettiva diversa sulla realtà di cui diceva Adorno.
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