Viene riedito per Meltemi, nella collana diretta da Andrea Staid, I greci selvaggi. Antropologia storica di Ernesto de Martino (pp. 282, euro 20) di Riccardo Di Donato. Il libro, punto di riferimento per lo studio della disciplina, era stato pubblicato nel 1999 da manifestolibri e risulta oggi arricchito di una nuova prefazione dell’autore, perfettamente inserita in quella de Martino renaissance che Massimiliano Biscuso, Giordana Charuty, Riccardo Ciavolella, Stefano De Matteis, Daniel Fabre, Antonio Fanelli, Marcello Massenzio e lo stesso Di Donato, in questi anni, tra gli altri, hanno costantemente saputo rinnovare.
Il volume, che attraversa – e supera – la preistoria demartiniana, ripercorrendo quella biografia intellettuale compiuta all’ombra dello storicismo, presenta un antropologo inquieto, attratto da un irrazionale un po’ selvaggio e un po’ europeo. È il de Martino storico delle religioni («non possiamo essere assenti dalla storia delle religioni»), indagatore delle aree di depressione culturale del mezzogiorno, l’autore del meridionalismo etico (i cui rapporti con l’opera di Rocco Scotellaro sono stati recentemente evidenziati da Marco Gatto).

L’ANTROPOLOGO che guarda al mondo contadino percorrendo una politica di per sé etnografica, mittente di certe lettere sofferte ad Antonio Giolitti, amico di Secchia («operaio autodidatta») e persino presenza – sia pure silenziosa – alla nota, quanto drammatica, direzione del Pci del 1954, in cui si era acuita quella rottura teoretica, poi resa definitiva, tra Colombi e Manacorda. Eppure, al di là della narrazione sulla preistoria politica, quanto Di Donato ci espone non è soltanto il racconto di uno studioso che deve superare l’esame severo di Luporini per scrivere su «Società» di etnologia e folklore ma è anche – e forse soprattutto – il resoconto di un autore che guarda alle origini dell’antropologia religiosa, alle influenze con l’opera di Jeanmaire sulla frenesia e allo Zagreus degli studi sull’orfismo (Mimesis, 2014) del suocero Macchioro. Si rinnova allora in questo testo quello storicismo già «ibridato» dei primi lavori demartiniani, condotti attorno al concetto di religione sotto la guida sapiente di Adolfo Omodeo. De Martino è figura mutevole, nato tra gli auspici del fascismo, amante di Spirito e lettore di Gentile, prima convertito al crocianesimo antifascista del circolo barese animato da Canfora, Cifarelli, Fiore e Laterza, poi passato alla più attiva forma di resistenza sulle colline romagnole (Ciavolella, Meltemi, 2018).
E poiché è spesso anche nella contraddizione che risiede la grandezza di un autore, è a partire da questi aspetti contraddittori che il libro di Di Donato torna ora sui banchi degli studiosi – dai quali, in realtà, non ha mai smesso di restare. Continuando ad essere un punto di partenza imprescindibile per la scoperta del genio dell’antropologo napoletano e il testimone ideale di una storiografia cresciuta con eminente dottrina, a Pisa, sotto l’ala protettrice di Arnaldo Momigliano.

È IL 1987 quando, presso il dipartimento di Filologia Classica dell’Ateneo pisano, si organizza un seminario sui fondamenti dell’antropologia storica di Ernesto de Martino. Sono presenti Clara Gallini, Jean -Pierre Vernant e Momigliano, che aprirà e chiuderà i lavori presentando la relazione tra de Martino e Banfi e recuperando il rapporto con Vittorio Macchioro. Gli interventi di quell’incontro vennero presto raccolti e pubblicati da Riccardo Di Donato in un libro altrettanto fortunato a titolo La contraddizione felice? Ernesto de Martino e gli altri (Ets, 1990). Ebbene, in entrambi questi lavori Di Donato ha saputo mostrare, vivo, un desiderio di ricerca nei confronti di un’antropologia del mondo antico che avesse le sue radici nel cuore profondo della «cultura moderna». Quasi affermando, al modo di de Martino, che i miti e le scienze costituiscono da sempre le «civiltà moderne» o – con Pasolini – che l’essenza della natura mitopoietica coincida assai spesso con la natura dell’uomo.
Tradurre il mito «tra la gente», portarlo nel moderno, smentire, «evitare la perfetta alienazione» è quanto Di Donato compie a partire da de Martino. Ed è qui che si raccoglie il senso della grande tradizione filologica. Poiché, come ha scritto Ottavio Fatica, è proprio questo il senso di ogni traduzione, che richieda di interpretare segni che sono anche sogni, che imbastiscono parole.