Nel suo fondamentale saggio dedicato alla figura del narratore, Walter Benjamin ipotizzava due archetipi: uno corrispondente a chi ha molto viaggiato, e riporta racconti da terre lontane; l’altro, colui che «vivendo onestamente, è rimasto nella sua terra, e ne conosce le storie e le tradizioni». A questa seconda categoria, secondo Benjamin «incarnata nell’agricoltore sedentario», appartiene la protagonista del romanzo di Ernest J. Gaines L’autobiografia di miss Jane Pittman (traduzione di Nicola Manuppelli, Mattioli 1885, pp. 295, € 18,00), una centenaria afroamericana, nata schiava, intervistata da un anonimo redattore all’inizio degli anni Sessanta.

Il corpo del romanzo viene presentato come trascrizione della voce registrata di Jane, che – a differenza delle slave narrative ottocentesche – conserva la vivacità della storia orale, con tutte le sue peculiarità lessicali, che nella traduzione italiana virano purtroppo verso una lingua «neutra», incapace di rendere – cosa obiettivamente tutt’altro che facile – la parlata dei neri della Louisiana, incluse le sistematiche infrazioni alla grammatica dell’inglese, che nell’originale rende la voce di Jane Pittman assolutamente credibile e le conferisce una sorprendente nettezza e forza espressiva (con risonanti echi biblici). Forse, proprio la difficoltà di rendere la lingua della narratrice ha tenuto lontana finora l’editoria italiana da questo romanzo, uscito in America nell’ormai lontano 1971.

Ernest Gaines conosceva bene il contesto rurale e razzista della Louisiana, essendovi nato nel 1933, nel bel mezzo della Depressione, figlio di una coppia di sharecroppers residenti in una piantagione dove un tempo lavoravano gli schiavi; la sua infanzia trascorse in un ambiente sociale simile alla piccola comunità agricola dove Jane Pittman passa quasi tutta la vita, ospitata da un latifondista bianco dall’atteggiamento bonariamente paternalistico, ma ben determinato a difendere il sistema della segregazione.

La nascita di quel mondo Gaines la descrive icasticamente nei capitoli iniziali del romanzo, quando, dopo l’euforia dell’annunciata abolizione della schiavitù nel 1865, Jane si unisce a una comitiva di ex schiavi che tenta di uscire dalla piantagione per scoprire ben presto che la Louisiana, e poi l’America, sono molto più grandi del previsto, e niente affatto disposti ad accoglierli. Gli schiavisti di un tempo si scatenano a massacrare gli schiavi liberati sorpresi fuori dalle piantagioni, e Jane, scampata miracolosamente a uno di questi eccidi, deve rinunciare al suo ingenuo sogno di andare nell’Ohio, sorta di irraggiungibile terra promessa. Proprio la sua sedentarietà forzata le consentirà, nell’arco della sua lunghissima vita, di testimoniare i lenti e faticosi cambiamenti di una società fondata sulla diseguaglianza e sulla negazione dei diritti dei neri: il diritto all’istruzione, all’indipendenza economica (gli ex-schiavi divenuti mezzadri non se la passano molto meglio), alla vita, addirittura, perché ripetutamente in questa storia i neri che non stanno alle regole dei bianchi, come l’insegnante Ned, che sogna di istruire la sua gente, o l’attivista Jimmy, che tenta di replicare in Louisiana le marce del reverendo Martin Luther King, vengono uccisi senza che gli assassini (talvolta ben noti a tutti) vengano perseguiti.

La lunga vita di Jane consente a Gaines di raccontare la storia degli Stati Uniti da un punto di vista eccentrico e rivelatore: passano così gli anni della Ricostruzione, con la nascita del Ku Klux Klan e l’instaurazione del sistema segregazionista; la guerra Ispano-Americana; gli anni del controverso governatore Huey Long, che Jane apprezza grazie alle sue donazioni di libri ai neri; l’emigrazione degli afroamericani dal sud alle città industriali del nord (viaggio non troppo diverso da quello della famiglia di Gaines, che lasciò la Louisiana per stabilirsi in California); la stagione delle lotte per i diritti civili. In questo percorso altre vite incrociano quella della voce narrante e testimone, conferendo una dimensione collettiva a una traiettoria individuale.

Il romanzo si chiude bruscamente, viene quasi troncato, sia perché Gaines intende sfuggire alla seduzione di un happy ending sia perché non vuol cedere al pessimismo; e per la prima volta Jane si ribella all’ennesima uccisione, scegliendo finalmente la resistenza.