Une femme (Una donna, l’Orma editore, pp. 110,euro 13,00) è l’ultimo capitolo a essere tradotto dell’autobiografia di Annie Ernaux, alcune delle cui tappe si chiamano La place (Il posto), L’autre fille (L’altra figlia), Passion simple (Passione semplice), ma soprattutto Les Années (Gli anni), forse il culmine, a tutt’oggi, delle sue capacità narrative. La fabula ripercorre qui la vita della madre della scrittrice, forza trainante di una famiglia nucleare di sottoproletariato contadino inerpicatosi nella piccola borghesia bottegaia e, attraverso la figlia, nei ranghi della borghesia intellettuale. Di questa scalata, condotta con le unghie e i denti e commendevole dignità (e l’inevitabile ferocia), e del suo propellente, Ernaux dà un referto nello stile gelido, da resoconto sociologico, che le è proprio, anche se qua e là traspare una qualche commozione. I momenti più significativi, del presente ritratto di donna, sono la descrizione dell’evoluzione sociale di questa contadina attraverso il suo assorbimento dei gusti estetici delle classi dominanti espresso attraverso il colore dei vestiti che indossa, via via più vivaci, fino alla vedovanza – e la scoperta del tailleur. È una «crescita» che va di pari passo con l’evoluzione del linguaggio, la ricerca di modi più appropriati per esprimere i sentimenti, strumento di ciò l’amore per la lettura che cresce, via via, dai giornali «femminili» ad autori come Dickens e Daudet.
Culmine di questa integrazione in un certo livello del mainstream culturale borghese è la carriera sociale e letteraria della figlia, il premio agli sforzi e i sacrifici di una vita. È un segno dell’onestà di Ernaux non sottacere come a questa evoluzione non corrisponda nel personaggio una cancellazione delle proprie origini – e traspare nella violenza di molte espressioni, molti gesti, come i bruschi transiti dalla durezza alla dolcezza nel rapporto con la figlia. Significative, forse le migliori della narrazione, sono le pagine sull’Alzheimer della madre, quel recedere nelle nebbia della demenza senile dalla quale, tuttavia, risorge per momenti, poi ricadendo in quell’oscurità. Forse non sarebbe stato inutile se la scrittrice si fosse un po’ più soffermata nelle descrizioni della malattia – o il suo impatto sui nipoti tanto amati, e con i quali la donna conviveva ma, naturalmente, questo sarebbe stato un altro libro.
Ciò che costituisce una vera e propria mutilazione, e censoria, più che dettata da necessità di economia narrativa, o di stile, è confessato candidamente verso la fine del racconto: «…Qualche settimana fa una zia mi ha detto che mia madre e mio padre, quando ancora non erano sposati, si davano appuntamento nei bagni della fabbrica. Ora che mia madre è morta vorrei non venire a sapere più niente su di lei, niente oltre a ciò che già sapevo quando era viva». L’argomento potrebbe avere un senso nelle pieghe di un racconto «confessionale» (uso il termine nel senso che confessional sono i testi poetici degli anni 1950-1970 di Robert Lowell), non in una narrazione dove deliberatamente gelida è la prosa. Non si tratta di curiosità morbose, da parte del recensore; il «non vorrei sapere di più» stravolge l’assetto narrativo, d’improvviso compare qui ciò che è (o dovrebbe essere) decisamente fuori posto, la «lacrima». L’intero paragrafo avrebbe dovuto essere omesso – la sua presenza richiede che su quegli incontri ci sia detto di più.
Il ricordo, più che a Un cœur simple, il cui autore è un uomo, va a The Daughters of the Late Colonel (1920) e a Life of Ma Parker (1921), due storie di una delle più grandi scrittrici del ventesimo secolo. Nei racconti, pure all’interno delle convenzioni dei suoi anni, Katherine Mansfield non esitava a usare, anche contro se stessa, la crudeltà – convinta, correttamente, che tale è la richiesta della scrittura, quando è scrittura. È una qualità che s’è persa – se mai da noi c’è stata e dove sacra è la mamma, come nella canzone di Luciano Tajoli, che nel suo ambito ci funestò il dopoguerra.
Qualunque cosa fosse, ciò che succedeva in quei bagni di fabbrica (amori, discussioni, progetti), dal momento che quegli incontri clandestini sono stati menzionati, nessuna censura è concessa. Il rischio è che l’operazione vanifichi l’intero racconto, la vita della protagonista riducibile allora all’«One shilling life will give you all the facts» di W.H. Auden. Ma la vita del personaggio di Une femme non fu «da uno scellino».
Spiace dover fare queste considerazioni sull’opera di una scrittrice che abbiamo sempre ammirato, e continuiamo ad ammirare: fui tra i primi a scriverne con entusiasmo, né soltanto su queste pagine (2012), strumentale, inoltre (con l’appoggio del compianto Mario Lunetta), a farle ottenere il Premio Feronia-Filippo Bettini nel 2014. Il fatto è che i libri sono come i figli, ce n’è che nascono con le orecchie a sventola, e chi no. Comunque: non è la prima volta che Ernaux ha questo genere di scivolii nel patetismo – quasi cedimenti nella tensione di un tela. Fu così in Passione simple, glielo scrissi.
NOTA. Nella ultime pagine dell’edizione italiana di Una donna, c’è l’elenco delle opere stampate da l’Orma con i premi che la singola opera può avere ottenuto. Sotto Il posto, nessuna menzione, per qualche ragione, del Feronia-Bettini.