Erica Mou, il male come rivelazione tra madre e figli
Morire dopo i propri genitori è considerata una legge naturale e anzi è una condizione che se si presentasse in forma opposta sarebbe quanto mai terribile e angosciante, per non dire insostenibile. Eppure proprio in un tempo in cui la morte sembra sostare oltre il guado della vecchiaia come un colpo di scena sempre improvviso, la malattia s’indugia nelle nostre esistenze come una presenza ancora più imprevista, e lo fa mutando e trasformando radicalmente giorno dopo giorno le condizioni date e ritenute erroneamente e ingenuamente un tempo così assolutamente definitive; così come cambia – spesso capovolgendoli – i ruoli e il relativo spazio fisico e affettivo fino ad allora conosciuto.
L’INFERMITÀ PORTA chi è malato e i suoi affetti in uno mondo sconosciuto, un purgatorio difficile da decifrare dentro al quale la guarigione non sta dalla parte opposta della morte, ma nel medesimo campo. La malattia trasforma la vita in una forma instabile e spesso irriconoscibile, qualcosa per cui farsi odiare. E Una cosa per la quale mi odierai (Fandango, pp. 204, euro 16) è il titolo del secondo libro della cantautrice Erica Mou, una frase della madre che precede, come una forma di avvertimento, la confessione di essere malata. Affetta da un male incurabile.
IL LIBRO ASSUME così la forma di un racconto in spericolata discesa in cui Mou gestisce con rara bellezza e consapevolezza una lingua aspra e a tratti nervosa, quasi a ribadire uno stato interiore che torna – come obbligato – sul luogo di un dolore estremo. Un ritorno necessario, fatto per provare, se non a chiudere i conti, almeno per riprendersi una forma originaria del ricordo. Un sentimento che sia finalmente a distanza di anni almeno in parte slegato da una malattia che tutto ha coperto e tutto ha congelato in uno stato di freddo interiore.
L’AUTRICE ALTERNA alla narrazione alcune pagine del diario della madre tenuto nei giorni della malattia, un diario fatto di frasi brevi, appunti semplici eppure emotivamente sconvolgenti. Uno sguardo della madre sulla figlia che si rinnova giorno dopo giorno come un vero e proprio viaggio di scoperta. Non è più un rapporto interno alla famiglia, ma una relazione tra due donne che si riscoprono tra forza e fragilità. Una relazione che vive e si ridefinisce attorno alla pratica della cura che perde la sua valenza strumentale di necessità per divenire necessaria in quanto forma di connessione e di umana comprensione. Una cosa per la quale mi odierai acquista così una forza originale, una capacità di perlustrare il male e il dolore con lo scopo di saperlo vedere per starne così alla larga.
Riconoscere il male per prendersi cura di chi ne viene toccato. Quella che appare inizialmente come una forma di avvertimento e in parte come una resa diviene così il nocciolo duro di una possibilità inedita: rivelarsi l’uno all’altra, mettendo alla prova un amore mai scontato, nemmeno tra madre e figlia. Mou tocca corde sentimentalmente tese, ma non gioca mai inseguendo la spudoratezza del dolore, anzi ne rigetta la retorica per dare invece corpo alla storia di una donna, sua madre.
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