Éric Sadin, scrittore e filosofo, si dedica da anni alle contraddizioni del capitalismo digitale e all’impatto della tecnologia sulla vita comune. Ha scritto, tra gli altri, La silicolonizzazione del mondo (Einaudi) e Critica della ragione artificiale (Luiss University Press). Lo abbiamo incontrato alla libreria Stendhal di Roma per parlare dei suoi ultimi libri: L’Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune (Luiss University Press) e Faire sécession. Una politica di noi stessi (L’échappée, sarà tradotto l’anno prossimo da Luiss). In questi testi l’attenzione è posta meno sul digitale e più sulla questione sociale e politica. Il digitale appare più nel ruolo di un amplificatore della frattura del comune. Sadin spiega infatti come, nel corso del tempo, si sia formato un nuovo soggetto: l’individuo tiranno. Un essere racchiuso in una rappresentazione gonfiata del sé. La prospettiva di un mondo comune è crollata di fronte all’onnipotenza di questo individuo, intensificata dalle reti sociali.

«Viviamo in un momento di estrema saturazione di un ordine politico ed economico che è stato in vigore per quasi mezzo secolo – spiega Sadin – e che ha fatto nascere l’intenzione determinata di non subire passivamente. L’uso delle tecnologie digitali facilita l’esistenza, forniscono un accesso immediato alle informazioni e permettono di formulare opinioni. Danno la sensazione di aumentare il potere. Ma questo crea una tensione esplosiva perché contribuisce a immaginarci come soggetti autarchici che liberano continuamente i risentimenti. Questa sarebbe “l’epoca dell’individuo tiranno”: l’avvento di una condizione civile senza precedenti che vede l’abolizione progressiva di qualsiasi terreno comune per far posto a un brulichio di esseri che si sentono imbrogliati e traditi al punto da arrivare a contare solo sulla propria percezione delle cose».

Il filosofo Éric Sadin

In che modo le reti sociali storiche, Facebook, Twitter e Instagram, hanno contribuito a costruire questo «individuo tiranno»?
Hanno generalizzato un rapporto gonfiato con la realtà e con gli altri. Il loro decollo avviene alla fine del primo decennio del nostro secolo, in un momento in cui la maggioranza sentiva di vivere in uno stato di invisibilità sociale e di inutilità. Una piattaforma permetteva allora di esporsi agli occhi degli altri ricevendo salve di gioia da un pollice in su. Facebook funge da valvola di sfogo per le nostre vite squallide e ristrette. Al tempo della crisi finanziaria del 2008, che ha cementato una sfiducia forse permanente nelle istituzioni economiche e politiche, Twitter ha dato voce al risentimento e alla rabbia con formule che favoriscono l’affermazione categorica e che portano rapidamente a una brutalizzazione degli scambi. Mentre l’industria digitale si proponeva di mercificare la totalità delle nostre vite, ha fornito un’interfaccia progettata per costruire un’aura simbolica. Instagram ha portato a una stilizzazione pubblica della sua esistenza per monetizzare il potere di raccomandazione ai suoi «followers». Alla fine queste piattaforme servono solo ad affermare il primato del sé in opposizione alla finzione della «rete sociale».

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La crisi del Covid 19 ci ha fatto sprofondare in una sempre maggiore intermediazione digitale, in quella che lei chiama «telesocialità generalizzata». Cosa significa?
È importante capire fino a che punto la crisi sanitaria abbia aggravato il nostro stato di isolamento collettivo dovuto all’avvento di una tele-socializzazione sempre più integrale, una società «senza contatto», dove lo schermo è diventato la principale istanza di interferenza tra le persone. La crisi del Covid 19 ha dimostrato che quasi ogni compito può essere fatto online, a distanza. Le aziende sono ora inclini ad abbandonare i loro uffici e ad organizzarsi sempre più attraverso il telelavoro. Lavori che non si pensava potessero essere esternalizzati, come le competenze informatiche, l’insegnamento e il lavoro di segreteria, diventeranno precari e prenderanno la forma del freelance. Questa è la promessa del «metaverso» di cui parla Mark Zuckerberg: sperimentare un numero sempre maggiore di sequenze della vita quotidiana attraverso cuffie e avatar di realtà virtuale. Presto potrebbe esserci imposta senza alcun dibattito pubblico. Stiamo vivendo una rottura civile, le cui conseguenze saranno le grandi questioni sociali e politiche del prossimo decennio. Stiamo entrando in una nuova epoca di globalizzazione dei servizi molto violenta.

Secondo lei la tecnologia digitale non ha contribuito all’emergere di un «capitalismo di sorveglianza» come sostiene Shoshana Zuboff. Perché?
Ciò che caratterizza la sorveglianza è la raccolta di informazioni ai fini del controllo disciplinare. Ma questo lo fanno gli Stati. L’industria digitale non si preoccupa di spiarci, intende penetrare nel nostro comportamento – generalmente con il nostro consenso – al solo scopo di segnare perfettamente il corso della nostra vita quotidiana. Quello in cui siamo raggomitolati è più precisamente un capitalismo dell’«amministrazione del nostro benessere». Il tempo non deve più essere dedicato solo alla denuncia dei giganti digitali che ci solleva dalla nostra parte di responsabilità e a cogliere ciò che il nostro uso delle loro tecnologie e l’enunciazione ridondante delle nostre opinioni sui social network ha generato in termini di sordità tra le diverse componenti del corpo sociale.

Dall’inizio degli anni Dieci si è detto che stiamo assistendo a un aumento del populismo. È d’accordo con questa definizione?
Non credo che sia appropriata per analizzare fenomeni nuovi. Il populismo implica aspirazioni comuni e promesse fatte da figure forti che dovrebbero conquistare l’approvazione delle masse. Quello con cui abbiamo a che fare oggi è l’avvento di una nuova condizione dell’individuo contemporaneo. È il frutto dell’accumulazione di tante esperienze deludenti che hanno spinto molte persone a non credere più in nessun progetto collettivo. La rabbia attuale non ha tanto a che fare con motivi ideologici ma più con affetti soggettivi che si esprimono per mezzo di uno smartphone usato da chi rifiuta a chiunque di parlare a proprio nome. Sto parlando di un nuovo ethos che ha rimescolato le carte del patto tra governanti e governati e che ha dato luogo a uno stato di «ingovernabilità permanente».

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In questa storia, in quale modo Internet è stato trasformato dall’uso neoliberale della tecnologia?
Durante i «Trenta gloriosi» l’industria ha sviluppato prodotti che hanno sostenuto il processo di individualizzazione: la macchina, il campeggio o il videoregistratore che hanno dato alle persone la sensazione di vivere come volevano. Verso la fine degli anni Novanta sono apparsi Internet e il telefono cellulare che hanno permesso una maggiore mobilità e un accesso alle informazioni. Ciò ha dato l’illusione di ottenere una maggiore autonomia e usare meglio il nostro «capitale umano». Lo smartphone ha amplificato il fenomeno dando la sensazione di avere il mondo a portata di mano e di essere più attori della nostra vita. Il cerchio si è completato: il tecno-liberalismo ha generato un liberalismo del sé. L’utopia dell’emancipazione attraverso le reti sociali è stata una favola.

Su quali basi possiamo costruire una società di fronte alle nuove sfide che dobbiamo affrontare?
Dovremmo lavorare per stabilire una democrazia radicale, per usare le parole del filosofo John Dewey, attiva ovunque. L’alternativa non dovrebbe più consistere nel coltivare verdure biologiche o rinunciare a tutto da un giorno all’altro. Dobbiamo sostenere tutti i tipi di progetti virtuosi. Durante gli anni Dieci molto denaro pubblico è stato investito in start-up che sono state erroneamente glorificate. È invece il momento di considerare altre forme di organizzazione collettiva: nell’assistenza, nell’educazione, nel lavoro. Il denaro pubblico – cioè il nostro – deve essere investito in iniziative alternative che siano meno interessate al profitto e facciano parte di reti di solidarietà. L’alternativa non deve più essere un atto eroico, ma diventare diffusa. Dobbiamo difendere il diritto a sperimentare, sul terreno delle nostre realtà quotidiane, altri modi di vivere più appaganti che non danneggino nessuno e la biosfera. Questo mi sembra l’unico modo per sbarazzarci del risentimento e sperimentare la gioia unica di essere pienamente attori dei nostri destini. Altrimenti, è probabile che la furia di tutti contro tutti diventi la caratteristica dominante dell’epoca.