Erdogan al contrattacco
Turchia Il premier turco rimpasta il governo dopo la voragine della «tangentopoli»
Turchia Il premier turco rimpasta il governo dopo la voragine della «tangentopoli»
Quello di Recep Tayyip Erdogan è stato un contrattacco a due dimensioni. Da una parte la mossa difensiva, con il rimpasto e i dieci i nuovi ministri nominati. Dall’altra la manovra offensiva, con la maxi-purga nei dipartimenti di polizia. Solo a Istanbul sono stati quattrocento gli agenti riassegnati a mansioni di rango inferiore, secondo il sito del quotidiano Zaman. I risultati si sono visti subito, se è vero che ieri è emersa la notizia che sarebbe stata proprio la polizia a bloccare un’ulteriore serie di mandati di cattura emessi nell’ambito della «tangentopoli» esplosa nei giorni scorsi.
È bene ricapitolarne i passaggi, tanto è intricata la vicenda. Tutto è cominciato il 17 dicembre, quando c’è stata una raffica di arresti in relazione a un presunto giro di mazzette, favori, clientelismi. Tra le persone finite in cella, i rampolli dei ministri dell’economia, dell’interno e dell’ambiente, Zafer Caglayan, Muammer Guler e Erdogan Bayraktar. Tutti e tre si sono dimessi. Bayraktar non senza polemica. Ha infatti invitato Erdogan a fare altrettanto. Esortazione caduta nel vuoto.
Erdogan, rimasto spiazzato davanti alle inchieste, visto che ha sempre rivendicato l’azione moralizzatrice del suo Partito dello sviluppo e della giustizia (Akp), al potere dal 2002, ha cercato subito di ribaltare la situazione con il rimpastone e l’affondo contro la polizia, quest’ultimo seguito dall’insabbiamento dell’inchiesta. A denunciare la cosa è stato Muammer Akkas, titolare del caso, nonché pubblica accusa nel processo Ergenekon, l’ultimo stadio della missione di Erdogan: ridurre al minimo il raggio d’azione della casta militare. Questo il quadro generale, tra l’altro condito da chiassose proteste di piazza, con i reduci di Gezi Park e vari movimenti civici a chiedere la testa di Erdogan.
Ma perché il primo ministro s’è scagliato contro i poliziotti? Il fatto è che la polizia è l’apparato dello stato dove Hizmet, il movimento politico-religioso di Fetullah Gulen, farebbe più presa.
E si dà il caso che quella in corso, secondo la lettura pressoché unanime degli osservatori, è una guerra totale tra Erdogan e Gulen. Quest’ultimo è un predicatore che ha ricalibrato il rapporto tra Islam e politica, impastando conservatorismo sociale e morale, liberismo, etica del lavoro. Pensiero di cui è impregnato l’Akp. La sua ascesa al potere e la ridefinizione degli equilibri in Turchia avvenuta negli ultimi anni – erosione del potere del kemalismo, più spazio all’Islam politico – viaggia a braccetto con l’espansione dell’influenza di Hizmet, che fa leva anche su una fitta rete di istituti educativi (Erdogan ha fatto chiudere quelli che preparano agli esami d’ingresso negli atenei) e giornali.
La marcia congiunta di Erdogan e Gulen (autoesiliato in America dal 1999) ha accusato una prima flessione nel 2010, quando Erdogan ruppe con Israele a causa del blocco a Gaza, mentre Gulen sostenne la necessità di non incrinare l’alleanza storica con lo stato ebraico. Ma il vero punto di scontro è una questione di potere e dividendi. L’eclissi dei laicisti e l’espansione della ricchezza hanno aperto spazi da conquistare sia nell’amministrazione che nell’economia reale. Erdogan e Gulen se li contendono. Mentre sullo sfondo campeggia l’appuntamento delle presidenziali di agosto. Sono le prime a elezioni dirette, nella storia del paese. Erdogan, non sazio da due mandati da primo ministro, vuole candidarsi e vincere. Plebiscitariamente. Gulen teme che la sua fame di potere e gli strascichi di Gezi Park possano annientare il modello Akp, che coniuga Islam e democrazia.
Lo scontro frontale era nell’aria. Già prima degli arresti del 17 dicembre, l’Economist aveva segnalato che i gulenisti acquartierati nei tribunali e nelle questure stavano rifinendo i dettagli dell’operazione giudiziaria contro i membri del governo e che negli ultimi tempi Erdogan aveva alzato i toni, parlando di «stato nello stato».
Senza mai menzionarlo direttamente, il primo ministro ha continuato anche negli ultimi giorni a snocciolare frasi pesanti contro Gulen, arrivando a parlare di «complotto ordito dall’estero». In quella che, più ancora della manifestazioni di Gezi Park, dell’elezione tesa di Abdullah Gul alla presidenza e del processo Ergenekon, sembra essere la più seria crisi politica dell’era Akp.
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