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Erdogan al contrattacco

Erdogan al contrattaccoManifestazione anti governativa in Turchia – Reuters

Turchia Il premier turco rimpasta il governo dopo la voragine della «tangentopoli»

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 27 dicembre 2013

Quello di Recep Tayyip Erdogan è stato un contrattacco a due dimensioni. Da una parte la mossa difensiva, con il rimpasto e i dieci i nuovi ministri nominati. Dall’altra la manovra offensiva, con la maxi-purga nei dipartimenti di polizia. Solo a Istanbul sono stati quattrocento gli agenti riassegnati a mansioni di rango inferiore, secondo il sito del quotidiano Zaman. I risultati si sono visti subito, se è vero che ieri è emersa la notizia che sarebbe stata proprio la polizia a bloccare un’ulteriore serie di mandati di cattura emessi nell’ambito della «tangentopoli» esplosa nei giorni scorsi.
È bene ricapitolarne i passaggi, tanto è intricata la vicenda. Tutto è cominciato il 17 dicembre, quando c’è stata una raffica di arresti in relazione a un presunto giro di mazzette, favori, clientelismi. Tra le persone finite in cella, i rampolli dei ministri dell’economia, dell’interno e dell’ambiente, Zafer Caglayan, Muammer Guler e Erdogan Bayraktar. Tutti e tre si sono dimessi. Bayraktar non senza polemica. Ha infatti invitato Erdogan a fare altrettanto. Esortazione caduta nel vuoto.
Erdogan, rimasto spiazzato davanti alle inchieste, visto che ha sempre rivendicato l’azione moralizzatrice del suo Partito dello sviluppo e della giustizia (Akp), al potere dal 2002, ha cercato subito di ribaltare la situazione con il rimpastone e l’affondo contro la polizia, quest’ultimo seguito dall’insabbiamento dell’inchiesta. A denunciare la cosa è stato Muammer Akkas, titolare del caso, nonché pubblica accusa nel processo Ergenekon, l’ultimo stadio della missione di Erdogan: ridurre al minimo il raggio d’azione della casta militare. Questo il quadro generale, tra l’altro condito da chiassose proteste di piazza, con i reduci di Gezi Park e vari movimenti civici a chiedere la testa di Erdogan.
Ma perché il primo ministro s’è scagliato contro i poliziotti? Il fatto è che la polizia è l’apparato dello stato dove Hizmet, il movimento politico-religioso di Fetullah Gulen, farebbe più presa.
E si dà il caso che quella in corso, secondo la lettura pressoché unanime degli osservatori, è una guerra totale tra Erdogan e Gulen. Quest’ultimo è un predicatore che ha ricalibrato il rapporto tra Islam e politica, impastando conservatorismo sociale e morale, liberismo, etica del lavoro. Pensiero di cui è impregnato l’Akp. La sua ascesa al potere e la ridefinizione degli equilibri in Turchia avvenuta negli ultimi anni – erosione del potere del kemalismo, più spazio all’Islam politico – viaggia a braccetto con l’espansione dell’influenza di Hizmet, che fa leva anche su una fitta rete di istituti educativi (Erdogan ha fatto chiudere quelli che preparano agli esami d’ingresso negli atenei) e giornali.
La marcia congiunta di Erdogan e Gulen (autoesiliato in America dal 1999) ha accusato una prima flessione nel 2010, quando Erdogan ruppe con Israele a causa del blocco a Gaza, mentre Gulen sostenne la necessità di non incrinare l’alleanza storica con lo stato ebraico. Ma il vero punto di scontro è una questione di potere e dividendi. L’eclissi dei laicisti e l’espansione della ricchezza hanno aperto spazi da conquistare sia nell’amministrazione che nell’economia reale. Erdogan e Gulen se li contendono. Mentre sullo sfondo campeggia l’appuntamento delle presidenziali di agosto. Sono le prime a elezioni dirette, nella storia del paese. Erdogan, non sazio da due mandati da primo ministro, vuole candidarsi e vincere. Plebiscitariamente. Gulen teme che la sua fame di potere e gli strascichi di Gezi Park possano annientare il modello Akp, che coniuga Islam e democrazia.
Lo scontro frontale era nell’aria. Già prima degli arresti del 17 dicembre, l’Economist aveva segnalato che i gulenisti acquartierati nei tribunali e nelle questure stavano rifinendo i dettagli dell’operazione giudiziaria contro i membri del governo e che negli ultimi tempi Erdogan aveva alzato i toni, parlando di «stato nello stato».
Senza mai menzionarlo direttamente, il primo ministro ha continuato anche negli ultimi giorni a snocciolare frasi pesanti contro Gulen, arrivando a parlare di «complotto ordito dall’estero». In quella che, più ancora della manifestazioni di Gezi Park, dell’elezione tesa di Abdullah Gul alla presidenza e del processo Ergenekon, sembra essere la più seria crisi politica dell’era Akp.

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