Epstein e il cinema a venire
Libri di cinema Chiara Tognolotti, «La caduta della casa Usher» (La Chute de la maison Usher, Jean Epstein, 1928). Fotogenie, superfici, metamorfosi, da Mimesis
Libri di cinema Chiara Tognolotti, «La caduta della casa Usher» (La Chute de la maison Usher, Jean Epstein, 1928). Fotogenie, superfici, metamorfosi, da Mimesis
«Perché raccontare storie?» chiedeva il giovane Jean Epstein nel 1921 nel suo libro Bonjour Cinéma. «Non ci sono storie. Non ci sono mai state storie. Non ci sono che situazioni, senza capo né coda: senza inizio, senza nucleo, senza fine; senza dritto e senza rovescio; si possono guardare in tutti i sensi…». Il libro, ricco di grafiche indisciplinate e creative, fotografie, poesie, fotomontaggi, è un assaggio di pensieri vivi, lucidi quanto appassionati, sul cinema. Autore-pensatore Epstein, regista e scrittore, esploratore dell’ineludibile novità di questo medium che ci svela il mondo nel suo continuo muoversi e mutare, senza linearità e cornici rigide, lontano dalle trame e dagli intrecci («l’avvenimento ci afferra le gambe come una trappola per lupi»). Epstein non era l’unico, in quegli anni Venti, a salutare nel cinema un modo nuovo di vedere e quindi di pensare, fuori dalla tradizione narrativa e dal realismo; ma certo sono approfondite e originali la sua riflessione sul gesto, sulla nozione di fotogenia, la fecondità di un approccio poetico intrecciato a elementi di pensiero scientifico e filosofico.
Un libro di Chiara Tognolotti, ricercatrice all’Università di Pisa, studiosa che si è occupata a più riprese di Jean Epstein mettendo in luce anche l’importante figura della sorella Marie (attrice ma anche realizzatrice, attiva in molti settori del cinema) ci racconta ora il film La caduta della casa Usher, 1928. Pubblicato nella collana Mimesis Cinema/Origini, agili e dense monografie su singoli film più o meno noti dei primi decenni della storia del cinema, il libro analizza il film sia nel contesto delle avanguardie del periodo che nel rapporto con le teorie di Epstein e con il racconto di Poe da cui prende le mosse, segnalandone la produttività nel contesto attuale dei pensieri sul cinema e delle sue mutazioni.
La Chute de la maison Usher (63’), che ha visto una iniziale e collaborazione di Luis Buñuel come aiuto regista, è un film muto, realizzato alle soglie del passaggio al sonoro, e combina suggestioni di vari racconti di Poe intorno a quello che dà il titolo all’opera e che prevale come nucleo principale. «Impressioni generali su Poe», le definisce il regista; qualche variante rispetto al racconto di partenza (la sorella di Usher qui diventa la moglie, i protagonisti si salvano dalla rovinosa fine del maniero, e la malinconia, nota Tognolotti, prevale sul macabro) e soprattutto un approccio che esalta il cinema nella sua capacità di restituire la vita nascosta di oggetti e paesaggi, lo splendore tattile di superfici e apparizioni. Aspetti di oggetti, persone, architetture, paesaggi le cui qualità morali (così le definisce Epstein) sono accresciute ed esaltate dalla riproduzione cinematografica: fotogenici, dunque.
Nel cinema (ancora Epstein) «ogni particolare diventa un personaggio». Lontano dalla trappola della trama, che pure esiste, il film mostra gli intrecci neri dei rami, l’incessante correre di foglie secche nelle sale della casa, lo svolazzare di tende, i riflessi. Quadri, specchi, lenti. Percezioni alterate. Rallentamenti. Piante, animali, pietre vivono di vibrazione propria, indifferenti alla presunta centralità umana, portati in luce dalla luce del cinema; misteriosi e come sacri, scrive ancora Epstein. La storia si presta: una storia coi nervi a fior di pelle, con l’ossessione di Usher che nel ritrarre la donna sembra sottrarle progressivamente la vita, in uno scenario desolato e solitario. Lo sfinimento, il logoramento, la morte solo apparente, la vicinanza impotente dell’amico. L’ossessivo tornare sul ritratto, soglia ambigua fra vita e rappresentazione, giacché solo lì la povera Madeline sembra davvero viva. E Casa Usher pare un corpo che vive e respira, le cui forme evocano e assimilano la vegetazione – e in questo la scrittura filmica aderisce a quella letteraria di Poe.
Il libro compone in un montaggio agile e fluido la scena francese di quegli anni, elementi biografici, il raffronto con il testo letterario, il valore del film anche come attuazione delle idee di Epstein sul cinema, una puntuale analisi delle sequenze, cui l’apparato di foto offre sostegno. Ma una delle chiavi di lettura più interessanti, sintetizzata nel sottotitolo (Fotogenie, superfici, metamorfosi) è quella della messa in risonanza con l’oggi. Le avanguardie cinematografiche di un secolo fa tornano a parlarci, e non è certo un caso se si moltiplicano gli studi, le riscoperte, gli approfondimenti, nel confronto con un panorama mediatico come quello odierno, fluido e in rapida mutazione (di immagini, di schermi, di esperienze di fruizione, di infrazioni narrative, di effetti, di sensazioni e di percezioni). Gli esempi sarebbero molti: mostre, monografie, nuove edizioni di scritti. Il primo volume di questa preziosa collana diretta da Elena Dagrada, del resto, a firma di Antonio Costa, era dedicato a Le voyage dans la Lune di Méliès (1902) con una «appendice» in dialogo con Hugo Cabret di Martin Scorsese (2011) e con Journey to the Moon (2003), presentato alla Biennale di Venezia 2005 come omaggio a Méliès da parte di William Kentridge, artista che da sempre si misura con le tecniche del cinema delle origini, con il disegno e l’animazione.
Chiara Tognolotti mette in luce, col suo racconto e la sua analisi, alcuni nuclei di attualità di Epstein, la sua capacità di parlarci oggi con rinnovato slancio propositivo: la tattilità, ad esempio, teorizzata ma anche visualizzata (e accanto alle fotogenia Epstein pensava alla fonogenia); l’idea di pellicola-pelle-superficie; il superamento della trama e dello «spettacolo» a favore dell’esperienza mutevole e fluida, in metamorfosi; l’evocazione poetica e gli aspetti fisiologici, percettivi.
Cinema pensante, cinema come «pensiero dell’occhio», così lo definiva Epstein. Intrecciato col sentire, col desiderio, con la conoscenza. Un cinema a venire, capace di oltrepassarsi.
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