A rileggerlo, dopo anni, il libro mantiene una vivezza, che, tra dettagliati approfondimenti storici e penetranti analisi filologiche, serba i ritmi di una curiosa e aperta conversazione. Le lettere di Platone di Giorgio Pasquali (Neri Pozza Editore, pp. 329, € 20,00) sono ora di nuovo accessibili nell’eterodossa collana «la quarta prosa» diretta da Giorgio Agamben, che le introduce con un profilo dell’autore partecipe ed ellittico, non meticolosamente biografico. Apparvero in volume a Firenze nel 1938 presso Le Monnier e sono ristampate seguendo l’edizione accresciuta di Sansoni del 1967, pubblicata a cura di Giovanni Pugliese Carratelli. In più offrono la riproduzione fotografica di un volantino risalente al ’47, che fu inserito negli esemplari non ancora venduti e attesta l’umile ansia di esattezza sempre riscontrabile nelle ricerche di Pasquali (Roma 29 aprile 1885-Belluno 9 luglio 1952). «Io credo ora – è un sommesso inciso – di sapere che autentiche sono parecchie altre lettere di Platone oltre a quelle che quattordici anni orsono sostenevo tali (…). Quindi il mio dovere di rielaborare, e il rifacimento riuscirà meno imperfetto, se lettori insieme intelligenti (cioè critici) e benevoli ai miei libri (poco importa se anche all’autore) mi verranno in aiuto additandomi omissioni ed errori e presentandomi obiezioni».
Le Lettere riproposte, accanitamente discusse, son rimaste tredici, ma le sole date per autentiche sono le famose VII e VIII, la VI, nonché, probabilmente, la XI in parte. In questo testo sembra di respirare l’aria dei seminari, che dal 1931 Giovanni Gentile aveva chiamato Pasquali a tenere in Normale, e la stringata dedica, «Ai ragazzi di Pisa», evoca un’atmosfera di collegialità cementata da indissolubili affetti. I ponteggi del fervido cantiere son lasciati in bella vista. Non è qui il caso di addentrarsi in alcune delle innumerevoli dispute insorte fin da quando le epistole furono sdoganate dall’invalsa diffidenza per merito dello storico tedesco Eduard Meyer (1855-1933) e divennero uno dei nodi cruciali dello studio delle drammatiche guerre che a cavallo tra V e IV secolo a. C. sconvolsero la Grecia e il Mediterraneo. Gli interrogativi sulla loro autenticità non sono mai cessati: di recente, nel 2023, a cura della Cornell University Press è uscito un volume di Ariel Helfer, Plato’s Letters, dove si sostiene che tutte vanno considerate in blocco come una specie di «inusual epistolary novel», un po’ «semifictional», un po’ «semiautobiographical», del sommo filosofo fattosi «political advisor». Ma torniamo a Pasquali e alla sua impostazione del problema.
Platone, dunque, sbarca a Siracusa una prima volta nel 388, quando la città è sotto la tirannia di Dionigi I. Fu per lui una sorta di prova del nove a verifica della validità delle teorie enunciate nella Repubblica, concepita più o meno negli stessi anni. La situazione che trova non è migliore di quella che aveva lasciato a Atene. La sete di smodati piaceri che tutti corrompe rende «inevitabile che queste città – scrive nella VII Lettera indirizzata a familiari e amici di Dione (trad. di Antonio Carlini ) – mai finiscano di assistere al susseguirsi di tirannidi, oligarchie e democrazie, e che i loro governanti mal sopportino di sentire anche solo il nome di una costituzione giusta ed equa».
Neppure il giovane Dione, ascoltato consigliere, sarebbe riuscito a convincere il successore Dionigi II a tentare la via di una monarchia costituzionale e a favorire un’unità di tutta la Sicilia, rafforzandone la capacità di respingere gli attacchi devastanti e di superare le inimicizie intestine. Il caos prosegue e anche dopo ulteriori due missioni (nel 367 e nel 361) l’obiettivo perseguito non è raggiunto, neppure sfiorato. Dione sarà allontanato bruscamente dall’isola. La retta filosofia secondo Platone era l’eccelsa arma pacificante da far valere, ma il suo disegno si era dimostrato inattuabile. Nella Lettera VIII egli aveva chiarito il rovello che lo agitava: emanare «misure che potrebbero essere utili sia ai nemici sia agli amici o il meno dannose possibili per entrambi – queste cose son cose che non è facile scoprire né è facile attuare, quando siano scoperte». Guai se chi prevaleva avesse emesso leggi favorevoli ai suoi alleati e ostili a chi era estraneo all’élite dominante. Aristocratici e popolari sarebbero stati parimenti travolti. «Perché la servitù e la libertà senza misura, sono entrambe – ammonisce lo stimatissimo consulente – un grandissimo male; quando invece siano regolate con misura, sono un grandissimo bene».
Al primo posto delle tre cose su cui far leva – l’anima, il corpo e le ricchezze – nelle leggi da istituire è fondamentale collocare la «virtù dell’anima». Inaccettabile è il discorso che ritiene felici coloro che si arricchiscono. La potenza deve congiungersi alla filosofia in una persona che si adoperi nel far capire che «mai è felice la città – proclama nella VII il sapiente venuto dal mare –, e neanche l’uomo, che non viva secondo giustizia e ragione». «Tutta la Lettera VIII – commenta Pasquali – spira (…) rassegnazione»: la costituzione da elaborare non poteva che essere un realistico e ibrido compromesso. E Pasquali ne condivide il turbamento: tra gli interrogativi che affiorano, soffermandosi su pagine da cui son derivati passaggi fondamentali del pensiero politico europeo e i nuclei originari del modello formativo dello «specchio dei principi», vien da chiedersi fino a che punto l’amareggiato estensore di questo complesso libro metteva in relazione la Siracusa di quella lontana epoca con ciò che stava accadendo nel suo Paese, oppresso da un totalitarismo non certo preoccupato di assicurare razionalità e giustizia.
Non intendo scoprire in un volume pubblicato nel periodo in cui fu più silente il disagio di chi pur aveva firmato nel maggio 1925 la risposta crociana al «Manifesto degli intellettuali fascisti» una sorta di prudente nicodemismo. Piuttosto par lecito ipotizzare in Pasquali un comportamento analogo al disilluso esoterismo platonico: chi vuole riservare la dialettica più impervia a pochi non deve metterla per iscritto. Pasquali – è giudizio comune – non era portato a un’esposta militanza politica. Ma perfino i più indignati censori di chi fu indifferente alla dittatura ammettono che, malgrado cadute e opacità, il classicismo di Pasquali non si identificò mai con un’ideologia da inculcare con violenta boria. Allorché si orchestrò un’epurazione all’italiana, egli pagò la sua prossimità a Gentile con la radiazione dall’Accademia dei Lincei, perché cooptato, il 2 dicembre 1942, nell’Accademia d’Italia. «Per nessun periodo della sua vita – ha scritto Antonio La Penna – si può parlare di una piena adesione al fascismo, ma mai, né per il fascismo né per il nazismo, si rese conto della gravità della malattia, delle radici storiche e delle conseguenze disastrose». «La sua ostinata critica – sottolinea Agamben – alla retorica della romanità e allo strapaesismo così caratteristici del fascismo non poteva sfuggire ad un lettore attento».
Separarsi per un po’ da Platone era per Pasquali «grave», perché riteneva di «non aver mai avuto contatto con uno spirito più alto». Basterà sfogliare Il Testamento di Teodoro Mommsen, reso pubblico nel 1949 e inserito nelle Stravaganze quarte e supreme (’51), per percepire il contrasto che tormentò Pasquali. Mommsen rispecchiava umori e rammarichi dello stesso Pasquali: si doleva che non gli fosse stato possibile «essere un cittadino» e di soffrire di «uno straniamento interno al popolo» cui apparteneva. Pur rifiutando incasellamenti in scomparti prestrutturati Pasquali si definiva «fradicio di storicismo» (1941), ma di uno storicismo consapevole dell’«inscindibilità di storia letteraria e storia culturale» (Timpanaro) e dell’intreccio tra contenuti e forme. «La filologia non è né scienza esatta né scienza della natura, ma, essenzialmente se non unicamente, disciplina storica» aveva detto in Filologia e storia (1920) Pasquali. Che era un rappresentante insigne della Kultur, «immune da quelle manie antiquarie che avviliscono la scienza delle parole e la raffreddano nel gelo delle schede» (Montale). Quanto alle sue prose creative, perché, disubbidendo (?) al suggerimento del suo congedo, non ordinare in un Stravaganze di oltretomba almeno un florilegio di ritratti, racconti, aneddoti, elzeviri e inedite lettere che rimettano in circolazione qualcosa di un così geniale e frammentato patrimonio?