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Epistolario Ungaretti: umori e dettagli di un itinerario poetico

Epistolario Ungaretti: umori e dettagli di un itinerario poeticoJean Fautrier, Vegetaux, 1957

Epistolari letterari Attraversamento biografico «d’autore», ricco di spunti e di inediti: Le lettere di una vita 1909-1970 antologizzate in un Oscar «Baobab» Mondadori, a cura di Francesca Bernardini Napoletano

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 17 aprile 2022

«Le dico: “Sono uno smarrito”. A che gente appartengo, di dove sono? Sono senza posto nel mondo, senza prossimo. Mi chino verso qualcuno, e mi faccio male. E come fare a vivere e continuamente rinchiudersi come una tomba? Alessandria d’Egitto, Parigi, Milano, tre tappe, ventisei anni, e il cantuccio per il mio riposo non me lo posso trovare». Così Giuseppe Ungaretti, il «nomade d’amore», scriveva a Prezzolini nel novembre 1914, dichiarando l’inquietudine di un giovane nato e cresciuto in terra straniera, all’inesausta ricerca di patria e radici. Questo aurorale senso di smarrimento aprirà al noto binomio di innocenza e memoria imperniato su una pervasiva nostalgia, esistenziale più che sentimentale, nei cui albori è già possibile scorgere – ha osservato Ossola – il mito della terra promessa.

La lettera inviata a Prezzolini non è, tecnicamente, la prima dell’ampia antologia epistolare ungarettiana di recente apparsa per le cure di Francesca Bernardini Napoletano – Giuseppe Ungaretti, Le lettere di una vita 1909-1970 (Mondadori «Oscar Moderni Baobab», pp. XXI-1037, € 30,00) –, ma è quella da cui può «utilmente iniziare», scrive la curatrice, il «viaggio attraverso l’autobiografia epistolare» del poeta. Il volume è la più ricca e organica scelta di lettere, il primo epistolario ungarettiano, antologico sì, ma quanto possibile esteso nel tempo (oltre sessant’anni di lettere) e nel numero di destinatari (più di un centinaio), un vero attraversamento, per voce d’autore, dell’intera biografia, con pregi e limiti della scrittura di sé, ma folto di dettagli e di umori, potenziale, prezioso testo a fronte per l’itinerario poetico di Vita d’un uomo.

La lettera inviata a Prezzolini mostra già molti dei variegati toni della scrittura epistolare di Ungaretti, cui non mancano finezze e qualità letterarie. Ci sono la precisione schietta e insieme l’emozione con cui descrive il suo essere déraciné e la sua solitudine. C’è il gusto macchiettistico con cui ritrae il professore d’inglese del liceo, «giacchettino a vita, calzoni chiari appiccicati alle cosce, scarponi madornali, due tartarugoni sotto un paio di nodose pertiche», ritratto anche nella pronuncia aspra e nell’asintattismo: «inchlesi (…) amricani (…) itliani» e «Uscire classe. Unchretti, non toccare naso».

C’è qualche frammento di vita egiziana, i lustrascarpe in fila «accoccolati», la stessa postura che Francesca Bernardini rileva anche in due delle prime poesie di Ungaretti: Il paesaggio d’Alessandria d’Egitto, che nel 1915 inaugura la collaborazione con la rivista fiorentina «Lacerba», e la notissima I fiumi. Compare qualche spia lessicale degli amici conosciuti in Egitto, come «girottolo», il familiare frequentativo di “girare” usato anche da Enrico Pea, figura basilare per affetto e dialettica politica. Non manca la contenuta malinconia con cui menziona particolari del suicidio di Sceab – il suo ritrovamento «vestito, steso sul letto, sereno», sorridente, «la sigaretta spenta sul comodino» –, tutti taciuti nella scavata essenzialità della poesia In memoria.

Fra i dati in più, l’ammissione limpida e drammatica di una diversità nonostante l’amicizia: «La disperazione di Sceab non era la mia disperazione».

La struttura dell’epistolario è efficacemente fondata sulla metafora del viaggio che sostiene e spiega l’articolazione dell’antologia in tre parti: la prima (1909-1922), dalla giovinezza alla maturità, è quella del trasferimento dall’Africa all’Europa, da Alessandria d’Egitto a Parigi prima, a Roma poi, arco di tempo che comprende le prime due raccolte: Il Porto Sepolto e Allegria di Naufragi; la seconda (1922-1947), la più difficile da storicizzare, avverte la curatrice, «perché la documentazione, almeno fino al ’43, è quasi del tutto assente», va dall’ascesa del fascismo alla fine della Seconda guerra mondiale con la coda dell’epurazione dall’insegnamento universitario alla Sapienza, dove era stato chiamato per chiara fama sotto il regime, e la sospirata reintegrazione, periodo del Sentimento del Tempo e del Dolore; la terza parte (1948-1970) corrisponde all’«ultima grande stagione creativa ungarettiana, da La Terra Promessa a Il Taccuino del Vecchio, fino alle plaquettes degli ultimi anni e alla pubblicazione di Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a inaugurare la collana dei Meridiani mondadoriani».

Ogni parte è preceduta da un’ampia introduzione che non solo collega e commenta le missive qui pubblicate, ma aggiunge brani di lettere non antologizzate, utili alla ricostruzione della biografia (di cui precisa con garbo non pochi dettagli) e del legame tra Ungaretti e la storia e la cultura del suo tempo. I testi introduttivi, i rimandi tra corrispondenti, le citazioni di testi poetici e critici nelle note fanno di questo epistolario, pur apparso nella più affabile collana dei «Baobab», un autentico «Meridiano».

La rete delle relazioni ungarettiane è estesa e sempre in crescita. Assidua la corrispondenza con Papini, la cui ultima produzione poetica, scrive a Jean-Léon Thuile nel 1915, «è quel che di più grande è stato pubblicato in italiano da secoli». Molti i poeti – Betocchi, Bigongiari, Jaccottet, Jahier, Palazzeschi, Parronchi, Pasolini, Sanguineti, Sereni, Valéry, Zanzotto –; presenti i compositori, oltre a Luigi Nono anche Ildebrando Pizzetti. Numerosi gli artisti – Cagli, Bartolini, Rosai, Soffici –, tra questi, a Carlo Carrà scrive nel 1917 dalla Zona di guerra mettendo in frizione, ma in realtà mescolando, basso e alto, parassiti e vitalità: «mi sono coricato sui sassi fangosi, e topi, come gatti mio caro, mi passavano addosso come fossi stato casa loro, e i pidocchi, graziose bestioline, un po’ torpide ma tenaci come i tedeschi, (…) mi mangiavano allegramente; ma la mia fantasia non aveva soste che per contemplare sé stessa e bearmi d’essere sempre me stesso, così irresistibilmente transfuso nella vita».

Per la rivista napoletana «La Diana», invia a Gherardo Marone poesie cui il lavorio di lima dà messi di varianti, confidando al contempo «vorrei non essere un poeta; non possedere questa tormentosa sensibilità».

Scrive al poeta futurista Luciano Folgore che «Apollinaire è il più squisito “giocoliere” comparso nei giardini incantati della poesia moderna» e ne piange la morte nelle lettere ad Ardengo Soffici e a Giuseppe Raimondi.

Per tutta la vita – salvo gli anni della Seconda guerra mondiale – corrisponde con Jean Paulhan, che Bernardini definisce suo «confidente e quasi alter ego». A Pavolini scrive in favore dei De Chirico e di Severini, chiede aiuti per Pericle Fazzini e Giacomo Natta.

Attivissimo nel collaborare con Giuseppe De Robertis all’edizione delle prime raccolte, nel ’42 ribadisce la propria originalità e propone precisazioni critiche: «si potrebbe anche vedere, in fatto di motivi d’ispirazione, come sia nata qui l’idea d’aridità, d’essenzialità, di purezza, tornate poi in tanta lirica posteriore, negli Ossi di Seppia, nel Porto Sepolto fattosi Oboè sommerso, ecc.». Deriso già nel 1932 da Montale che – ricorda in nota la curatrice – scriveva a Quasimodo «Ho visto che la jena egiziana minaccia morte a tutti noi suoi “imitatori”».

I documenti più rilevanti di questo epistolario, con bell’apparato iconografico, sono gli inediti per almeno il venti per cento dell’insieme. Il testo francese vibrante di sonorità e d’emozione di una delle prime lettere alla futura moglie Jeanne Dupoix; il verbale del famoso duello con Massimo Bontempelli recuperato presso la Paul Getty Foundation; la lettera a Clerici in cui si rallegra che l’artista abbia accettato di fare qualche illustrazione per le poesie brasiliane; le inedite ad Alberto Mondadori – 1945 – in cui discute non solo questioni pratiche, redazionali, per i suoi libri in programmazione o in uscita, ma propone una «collana di poeti stranieri» che poi non vedrà la luce; quelle a Italo Bettarello sul possibile ritorno in Brasile per riprendere la cattedra già assunta nel precedente soggiorno; il mannello di inedite a Mario Petrucciani in cui presenta e discute anche le traduzioni da Blake.

Ma a colpire sono soprattutto le lettere inedite al critico Enrico Falqui, notevoli per varianti e questioni di poetica – «Non si può immaginare ciò che costa di fatica, dico di fatica fisica, la composizione d’una vera poesia, che propone mille problemi di tono, di ritmo, di senso, d’immagini, e non concede alcuna libertà» –; e quelle inviate a Zanzotto e Sanguineti.

Il primo si definisce «figlioccio» di Ungaretti e alla poesia del «santolo» riconosce un valore fondativo.

Il secondo, «commosso» dall’apprezzamento e dalla viva curiosità che alle sue poesie Ungaretti rivolge fin dal 1953, avvia un dialogo letterario anche sui temi che studiava in quegli anni: crepuscolarismo e influenza di Jammes, linea Gozzano-Montale.

E proprio l’ascolto di questi due giovani poeti, straordinari quanto tra loro inconciliabili, testimonia la curiosità per la parola nuova e l’inesausta, pervicace vitalità di Ungaretti, sbalzata anche dall’occasione della morte con cui la curatrice apre e chiude il suo lavoro in elegante Ringkomposition.

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