Nel 1936, l’anno del Fronte Popolare, Paul Nizan è già uno scrittore trentenne, militante a tempo pieno del PCF e, alternando note di letteratura e di politica estera, attivo sulle maggiori testate del Partito quali Ce soir, «Commune» e L’Humanité. Ex normalien come l’amico della vita Jean-Paul Sartre (il quale, riproponendone l’opera prima Aden Arabie a vent’anni dalla morte, nel 1960, ne avrebbe fissata per sempre l’immagine nel segno della intransigenza), Nizan è un marxista-leninista e in compenso un tiepido stalinista, un autore che ha alle spalle il pamphlet scagliato contro il sistema coloniale (Aden Arabie risale al ’31), un notevole romanzo di formazione (Antoine Bloyé, ’33, tuttora ignoto o quasi alla cultura italiana) e un altro violentissimo libello, Les chiens de garde (’32), in cui vilipende la filosofia accademica dei Bergson e dei Brunschvicg accusandoli di prefabbricare la saggezza della borghesia, di camminare sulla propria testa o insomma d’essere dei pavidi Monsieur Teste la cui sola forza consiste nel non varcare mai la soglia dell’astrazione.
Come di rincalzo e insieme a specchio della tesi, va letta l’uscita nel 1936 di una sua antologia divulgativa dei classici del materialismo antico, proposta in italiano da Bertani di Verona nel 1972 a cura di Alberto Tomiolo e ora ripresa, I materialisti dell’antichità (Eutimia, pp. 151, € 16,00), nella versione di Marco Ricci introdotta da Leda Luigia Rovati. Circa il Nizan antichista non esistono studi correnti e in genere i biografi lo trascurano se anche Annie Cohen-Solal in Nizan communiste impossible (Grasset 1980) lo ignora addirittura mentre il nostro Franco Fé (nel suo sempre utile Paul Nizan. Un intellettuale comunista, Savelli 1973) si limita a un inciso dove sottolinea l’ammirazione nizaniana per chi seppe «inventare un universo senza potenze spirituali».
I materialisti dell’antichità consiste in una antologia di frammenti di Epicuro e di passi dal De rerum natura di Lucrezio sobriamente annotati e introdotti da una premessa che chiarisce finalità e criteri della scelta. L’antologia scandisce i testi per argomento (Teoretica, Fisica, Psicologia, Etica) e rivendica un utilizzo combattivo sia di Epicuro, da opporre all’iperuranico Platone quasi costui fosse un «Joseph de Maistre del mondo greco», sia di Lucrezio il cui scandaloso ateismo in tutto sembra contraddire la fisionomia di Cicerone, massimo emblema di trasformismo politico-intellettuale nonché garante della concordia ordinum. Agli occhi di Nizan, i contesti in cui agiscono quei due antichi e grandi «liberatori» del genere umano sono segnati da profonda turbolenza e stato di crisi: da un lato il III secolo a. C., in Grecia, dove la filosofia di Epicuro soccorre l’atomizzazione degli individui all’interno di un mondo ormai divenuto «casuale», dall’altro il I secolo a. C., a Roma, in cui l’aspra e isolata riflessione di un poeta-filosofo esplode nell’agonia dello stato repubblicano fra il tramonto di arcaici istituti politici e una guerra civile permanente, manovrata da avidi signori della guerra.
Qui Nizan arriva a fare di Lucrezio un caso di vero e proprio engagement e scrive: «(…) come se il suo rapporto fosse duplice, come se Lucrezio l’uomo ansioso, trovasse nella saggezza epicurea un soccorso personale contro l’angoscia e come se, nello stesso tempo, Lucrezio il cavaliere trovasse nella teoria epicurea della natura un’arma contro i valori ‘nobili’ e, prima di tutto, contro la religione». Lucrezio sarebbe dunque un intellettuale organico agli equites, i «cavalieri», il ceto medio degli appaltatori e dei grandi accomandatari dello Stato equiparabili, secondo Nizan, ai borghesi dell’età moderna. Che questa fosse tuttavia, per quanto suggestiva, una forzatura lo avrebbe notato Sebastiano Timpanaro introducendo un aureo libretto del suo amico Jean Fallot (Il piacere e la morte nella filosofia di Epicuro, Einaudi 1977) dove afferma che «i cavalieri romani hanno avuto in comune con la borghesia moderna solo lo spirito affaristico (…) e l’ostilità contro l’aristocrazia»: d’altronde, che il ceto dei publicani non avesse alcuna propensione rivoluzionaria lo prova l’alleanza con l’aristocrazia medesima, pronubo Cicerone, contro chiunque osasse nominare la riforma agraria e la cancellazione unilaterale dei debiti. E qui va aggiunto che l’epicureismo era una dottrina rivoluzionaria solo nella misura in cui combatteva la religione tradizionale e l’ineffabile Cicerone anche di questo era ben al corrente.
Nonostante una bibliografia aggiornata à la page (con l’utilizzo dell’edizione oxoniense di Bailey 1927 per Epicuro e di quella torinese di Giussani 1896-’98 con il rinforzo ancora di Bailey, Oxford 1928), forte di uno stile asciutto e rivolto preferibilmente ai quadri del Partito comunista, Nizan non si sottrae a quanto si sarebbe detto un giorno l’uso pubblico della storia né teme una troppo disinvolta attualizzazione quando, per esempio, attribuisce un implicito messaggio di antifascismo alla grande monografia L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro (1936) che Ettore Bignone (un fascista sia pure di tiepida osservanza) non volle comunque mai introdurvi. Merito già di Tomiolo, la presente edizione riutilizza per l’antologia il corpus epicureo approntato da Graziano Arrighetti (Einaudi 1970) e il Lucrezio voltato in prosa per Utet da Armando Fellin (Della natura, 1963, poi semplicemente La Natura, 1980).
L’eccezionale valore di quest’ultima versione (una prosa cogitante e cadenzata per blocchi, nel ritmo che non cede alla prosodia se non per decreto della sintassi) evoca la figura di uno studioso troppo presto mancato. Classe 1923, allievo a Torino di Augusto Rostagni, partigiano in Val Varaita, docente all’Istituto Sociale dei gesuiti e poi al Liceo D’Azeglio, Fellin scompare nell’estate del ’66: oltre alla versione di Lucrezio, lascia interrotta quella degli Astronomica di Manilio e sue liriche di pronuncia verticale e stile esatto (ne uscirono alcune, a cura di chi scrive, in «Lengua» n. 11, 1991) nonché pagine disperse poi raccolte nel volume collettivo Armando Fellin 1923-1966 (Pàtron 1997) a cura di Italo Lana, cofirmatario con lui di una bellissima antologia in tre volumi, Civiltà letteraria di Roma antica (D’Anna), che tra gli anni sessanta e settanta fu pane quotidiano per almeno una generazione di liceali. Ecco solamente un paio di esempi dello stile traduttorio di Fellin dal De rerum natura (i titoletti sono giocoforza nizaniani): «Determinismo della natura. Né può alcuna forza mutare la somma delle cose: non c’è nulla infatti all’esterno in cui possa sfuggire dall’universo alcun genere di materia, né donde una nuova forza possa, sorgendo, irrompere nell’universo e trasformare tutta la natura delle cose e sconvolgerne i moti» (II, 303-3079); «La vita e la morte. Così, in lotta equilibrata, continua la guerra impegnata fra i princìpi da tempo infinito. Or qui or là prevalgono le forze vitali e sono vinte anch’esse. Si mescola al funebre lamento il vagito che i bimbi levano quando giungono a veder le spiagge della luce; né mai notte seguì a giorno, né a notte aurora, che non udisse misto ai deboli vagiti il pianto compagno della morte e del funerale oscuro» (II, 573-580). E infatti Paul Nizan, epicureo per elezione, suggella il suo libro di antichista agitprop definendo Lucrezio l’«insuperabile» poeta dell’amore e della morte.