Epici sabotaggi e destini incrociati
«The young lady’s toilet» di William Tayler, c.1842
Cultura

Epici sabotaggi e destini incrociati

Itinerari critici «Asia ribelle», a proposito dell'imponente volume di Tim Harper edito da Add. Nuovi giornali e partiti, intellettuali, girovaghi, anarchici, rivoluzionari con una causa comune: la liberazione dal giogo coloniale di un continente preda delle grandi potenze
Pubblicato 6 minuti faEdizione del 29 settembre 2024

Ci sono sempre «un certo» o «una certa» che, all’improvviso, sciolgono imprevisti e forniscono nuove possibilità. «Un certo Laynaud» si mette a correre dietro a un attentatore «insieme a un poliziotto e a un cuoco»: siamo nel 1924 durante una cena in onore di Martial Merlin, governatore generale dell’Indocina francese. Il funzionario francese era arrivato sull’isola Shamian a bordo di una nave postale militare scortata da una cannoniera. All’epoca Shamian era un avamposto dell’Occidente, «costruito su un banco di sabbia artificiale di circa ventidue ettari nel cuore della città cinese».
Merlin partecipa a un cocktail al consolato, poi va a una cena al Victoria Hotel: «niente di lussuoso, era l’unico albergo di Shamian». Il giornalista americano Hallett Abend scrive che «la cucina, anche in tempi di pace e abbondanza, era la peggiore di tutta la Cina». A un certo punto esplode un ordigno, a cui seguiranno scioperi e rivolte. Poco dopo compare un altro «un certo»: «Fu un quotidiano cinese a identificare l’attentatore del Victoria ancora prima della polizia. Nella cassetta delle lettere dello Xianxiang Bao fu lasciato un pacchetto contenente una foto e il testamento di un certo Pham Hong Thai».

L’ASIA STA RIBOLLENDO: attentati, nuovi giornali, nuovi partiti, personaggi di ogni sorta, intellettuali, girovaghi, anarchici, rivoluzionari, innamorati di Mazzini, traduttori di qualsiasi testo suonasse come nuovo, utile alla comune causa: la liberazione dal giogo coloniale di un continente preda delle grandi potenze. Sono gli anni del pensiero che per la prima volta si fa «asiatico», di persone accomunate dalla «stessa malattia»: la colonizzazione. Prende forma in questo periodo un’idea rivoluzionaria, un’Asia decolonizzata e capace di superare quei confini voluti da altri e pronta a sperimentare destini imperscrutabili. Questo è il mondo nel quale ci catapulta Tim Harper, professore di storia del Sudest asiatico all’università di Cambridge in Asia ribelle (Add editore, pp. 780, euro 45, traduzione di Anita Taroni e Stefano Travagli), un’opera-mondo sugli anni durante i quali l’Asia ha concepito il suo destino, provando a sfuggire all’Occidente, sia materialmente che spiritualmente: un’Asia ragionata dai suoi protagonisti in modo molto diverso rispetto al suo esito contemporaneo, fatto di Stati-nazione e di progresso così vicino alla «nostra» idea di progresso.
Harper ci porta all’interno di un universo temporale tra fine ‘800 e contemporaneità, nel quale figure storiche (Gandhi, Ho Chi Minh, tra gli altri) percorrono il continente, animano città «santuario» come Shanghai, Calcutta, Batavia, l’antica Giacarta, si formano a Parigi e poi Mosca, vero e proprio approdo per molti: a inizio Novecento, del resto, l’Asia coloniale è una immensa rete di località marittime, passi montani, piantagioni e vie d’acqua compresa tra l’oceano Indiano e le coste orientali cinesi ed è una polveriera «pronta a mandare in frantumi gli imperi europei». Da Bombay a Shanghai, da Singapore a Manila, le banchine dei porti e i transatlantici che fanno la spola dall’Europa diventano la via d’accesso di idee anarchiche e marxiste. Si parla di pace, di progresso, ma anche di bombe, di violenza, di necessaria violenza.

SONO ANNI DI COLONIE e di «ipo-colonie», termine coniato da Sun Yat-sen «per indicare una colonia umiliata dagli imperi occidentali», laddove il prefisso «chimico» con cui si indicano i composti di qualità inferiore diventa un indicatore dei metodi di governo degli occidentali.
E sono anni di spostamenti, che al fasto dei transatlantici rispondono con le rotte maledette e casuali dei rivoluzionari asiatici. A tracciare queste traiettorie, scrive Harper, «fu una generazione in costante movimento. Nguyen Ai Quoc era nato presumibilmente nel 1890 (non abbiamo una data certa), Tan Malaka nel 1897 e M.N. Roy nel 1887: furono loro i primi a spingersi lontano dai luoghi di origine, a incontrarsi in altre zone dell’Asia, in Europa e nelle Americhe, e a cercare un terreno comune». Sono rotte che partivano da Saigon, da Sumatra o da Calcutta, e da lì si sparpagliavano per il mondo, solcando tre oceani: «soggiornarono a Tokyo, Parigi, Amsterdam, San Francisco, New York, Berlino e Mosca, prima di convergere di nuovo verso l’Asia, a Canton, Shanghai e Singapore». Sono viaggiatori che si imbarcavano sulle navi «come marinai, operai, sguatteri, intrattenitori, studenti e, più di frequente, esuli». Poco bagaglio, documenti fittizi, libri proibiti, denaro falso, messaggi in codice: «entravano in contatto con un mondo interconnesso, ma anche alla rovescia: nelle viscere delle grandi città portuali scoprivano di potersi organizzare e agire con maggiore libertà». Il loro palcoscenico era composto da moli, stanze degli affittacamere, caffè, tipografie clandestine, che diventavano «centri nevralgici di una nuova consapevolezza globale».

SONO GLI ANNI nei quali agisce «un certo Ly Thuy», traduttore e di giornalista per l’agenzia di stampa sovietica Rosta, un uomo avvolto nel mistero: diceva di essere cinese e scriveva articoli con uno pseudonimo femminile per non essere identificato. «Emanava un fascino inquietante». O di «un certo Safranski», un ingegnere militare russo studioso di sanscrito; uno che si diceva avesse persino incontrato la leggendaria Emma Goldman. Persone, uomini e tante donne, che solcavano mari e affrontavano viaggi deliranti, tra l’Asia e l’Europa, il Nordamerica, alla ricerca di fondi, armi, amici, sostegni, sogni. «Un certo Husain Rahim, che diceva di essere un musulmano di Delhi», ad esempio, era attivo nella raccolta di fondi per il Partito socialista canadese e i Wobblies, sosteneva la solidarietà di classe tra i lavoratori bianchi e i migranti indiani della British Columbia.
«Un certo Ghulam Hussan» introdusse rivoluzionari indiani «alle traduzioni in urdu del Bande Mataram e a una biografia di Garibaldi scritta da Lala Lajpat Rai». Fascino intellettuale e prorompenza politica, finché non si scopre che Ghulam, in realtà, era un brahmino di Patiala. Il Raj inglese teme attentati, la sua polizia segue ovunque gli attivisti: alla fine del 1909, tra gli associati all’India House, coloro che avevano potuto si erano sottratti alle grinfie del Raj. Qualcuno vaga per l’Europa, come Savarkar, indipendentista e nazionalista, ma avversario di Gandhi, «già noto alla polizia prima ancora di lasciare l’India», promotore di un’organizzazione clandestina che, ispirandosi alla Giovine Italia di Mazzini, conia l’espressione Abhinav Bharat («Giovane India»). Uno dei suoi collaboratori più stretti era Virendranath Chattopadhyaya, studente di giurisprudenza, proveniente da un’importante famiglia di letterati bengalesi, meglio noto semplicemente come «Chatto». Alle storie politiche si affiancano quelle sentimentali, e rieccoci a «una certa»: la fidanzata inglese di Chatto, «una certa Miss Reynolds», che lo aveva raggiunto a Parigi travestita da ragazzo. Le trame asiatiche sono ovunque, si mischiano, si tingono di poesia vietnamita, filosofia giapponese, riformismo cinese, e irretiscono «anche le donne ricche e di elevata posizione». Nel 1916, ad esempio, il rivoluzionario indiano Taraknath Das «fece la sua comparsa a Shanghai. Lavorava per una certa Oriental Ancient Literature Society». Persa ogni speranza di una rivolta fra le truppe indiane nel canale di Suez, e sofferente di coliche ai reni, «aveva viaggiato nei Paesi neutrali, negli Stati Uniti e in Giappone. Ora il suo obiettivo era ottenere il sostegno dei rivoluzionari cinesi per la liberazione dell’India». A finanziarl sono due ricche signore americane.

NEL 1925 TAN MALAKA, rivoluzionario indonesiano, finisce nel mirino della polizia inglese. Sta studiando tagalog con una giovane donna, «una certa Miss Carmen, che gestiva un ostello per filippini a Canton». Tan Malaka accetta il consiglio dei residenti dell’ostello «e nel luglio 1925 partì clandestinamente per Manila fingendosi uno studente che rientrava o un pugile itinerante, senza documenti». E, infine, la seconda guerra mondiale, l’Asia come la conosciamo più o meno oggi e noi: ancora smemorati di quell’epoca, capaci di trasformare il colonialismo in una stramba «nostalgia per un’esotica e immaginaria Indochine, per la vera Malesia, i luminosi ’bei vecchi tempi’ della Java coloniale». Fu così, secondo Harper, che gli espatriati europei affrontarono «le loro ansie razziali e presero le distanze dalla violenza del dominio coloniale e dalle sue conseguenze piangendo un mondo che loro stessi avevano distrutto». Dall’altro lato, quello asiatico, rimane un bagaglio utopico nascosto in centinaia di vite e di storie: «molti uomini e donne erano convinti che i rapporti di solidarietà che avevano costruito – e che si fondavano su un comune vissuto di oppressione e sfruttamento, di confini continuamente rinegoziati e di esclusione – avrebbero avuto la meglio sulla limitatezza delle nazioni, spalancando la strada a un comune destino utopico». La convinzione era una: che sarebbe stata l’Asia a guidare le lotte per la libertà dalla sottomissione e dalla miseria, «quella che Tan Malaka avrebbe definito l’indipendenza al cento per cento». Un futuro con un nome nuovo: «Aslia», come la chiamò Malaka negli anni ’20: una nuova unità all’interno di un ordine mondiale ricostruito. «E questo – conclude Harper – fu solo uno dei tanti progetti».

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