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Epatite C, diritto alle cure per chi usa sostanze

Fuoriluogo Secondo stime Onu, nel mondo le persone che usano droghe per via iniettiva ammontano a 12 milioni; di queste, ben il 52% è Hcv positivo a fronte del 13% di persone affette da Hiv/Aids

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 21 settembre 2016

«La scienza è chiara. Abbiamo ora bisogno di concentrarci sul superamento delle barriere all’accesso alle cure, e sfruttare le più recenti ricerche per attuare programmi che funzionino. Un ulteriore ritardo non è etico e mina la salute pubblica», questo il messaggio dell’incontro. Così il professor Jason Grebely, del Kirby Institute, Australia, intervenendo al quinto simposio Inhsu (International Network on Hepatitis in Substance Users), organizzazione internazionale che si prefigge lo scambio, la divulgazione di conoscenze scientifiche e la promozione dell’advocacy in merito alla prevenzione e alla cura dell’epatite C (Hcv) per le persone che usano droghe, tenutosi dal 6 al 9 settembre ad Oslo (http://www.inhsu2016.com ). Quattro giorni intensi dove accanto alle ultime ricerche scientifiche non si è mai dimenticata la valenza politica della materia. Un dato su tutti: secondo stime Onu, nel mondo le persone che usano droghe per via iniettiva ammontano a 12 milioni (World Drug Report 2015); di queste, ben il 52% è Hcv positivo a fronte del 13% di persone affette da Hiv/Aids; 700.000 sono i morti ogni anno.

L’incontro di Oslo ha consentito uno sguardo sul fenomeno a livello mondiale: erano presenti rappresentanti delle Pwud (People who use drugs) di tutti i continenti, che hanno attuato un confronto esaustivo sui modelli organizzativi, i problemi relativi all’accesso al farmaco, le norme che lo regolano e i progetti portati avanti per la riduzione delle infezioni. Erano presenti le Unions del Nord Europa, supportate dai propri governi, così come organizzazioni di pari del Sud Europa, ma anche del Sud-est asiatico, come l’Indonesia, dove ancora esiste la pena di morte per chi fa uso di droghe: differenze che ben fanno capire il lavoro che ancora rimane da fare a livello mondiale per i diritti fondamentali. Purtroppo in molti paesi i protocolli medici alzano barriere all’accesso al trattamento di chi usa sostanze e il convegno ha voluto sfatare il luogo comune che vede le Pwud come pessimi pazienti; anche considerando le nuove cure basate sugli antivirali ad accesso diretto, si è dimostrato che il consumo è fattore trascurabile dal punto di vista scientifico. Purtroppo, non dal punto di vista del giudizio morale. Un limite, a nostro avviso, la scarsa attenzione alle problematiche relative ai trapianti di fegato: se esistono difficoltà nell’accesso alle terapie, per le Pwud il trapianto è addirittura impossibile. L’intervento dell’americano Ethan Nadelmann ha centrato con acutezza e ironia un tema tutt’altro che comico: il rapporto tra la war on drugs e le pandemie droga-correlate. Il messaggio è chiaro: a fronte di interessi economici e politici si alimenta lo stigma e la discriminazione e di conseguenza la diffusione di malattie; basterebbe far ricorso al buon senso e applicare serie politiche di riduzione del danno. Se le norme non cambieranno, se non ci sarà un’unità d’intenti nell’affrontare la diffusione delle malattie, la dimensione globale potrebbe giocare addirittura a sfavore nel caso in cui l’adozione di programmi di contrasto alla malattia riguardassero soltanto alcuni territori: tutti i paesi, compresi quelli a medio e basso reddito, devono essere inclusi in un serio programma di accesso alle cure garantito.

Per noi attivisti italiani Oslo è stata l’occasione di un nuovo incontro dei membri della rete delle pwud Europud, network nato da poco, ma ricco di potenzialità, che si prefigge di essere sempre più presente in tutta Europa nei luoghi dove si decidono le politiche sulla salute e la vita di chi usa sostanze.

*Isola di Arran – Indifference Busters, Torino

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