Enzo Siciliano venne in Ancona alla fine di giugno del 2002, ospite di una rassegna, «Poesia in giardino», curata dal poeta Francesco Scarabicchi.

Sorridente, abbronzato, elegante nel suo abito di lino color sabbia, non ancora segnato dalla malattia, nella terrace di un bar del centro storico, a pochi metri da dove l’amato Visconti aveva girato la sequenza centrale di Ossessione, parlava di quel grande maestro e, per prossimità metonimica, del carattere che opponeva la bellezza sensuale di Clara Calamai a quella viceversa invasiva e persino crudele di Alida Valli; poi il discorso virò su altri e diretti suoi maestri (il primo fu Giorgio Bassani, editor ufficioso e partecipe di Racconti ambigui, 1959) e quindi sugli amici fra cui Dario Bellezza che qualche ora dopo, parlando della sua rivolta che voleva guadagnare un’innocenza già perduta per destino, avrebbe commemorato in una lectio sulla terrazza del Museo Archeologico a picco sul vecchio porto, rileggendone le poesie d’esordio pubblicate, grazie alla sua stessa fideiussione, nel numero di «Nuovi Argomenti» che porta la data dell’ottobre-dicembre 1968: ne sarebbero appunto uscite le pagine che oggi accompagnano i testi rari e più remoti di Bellezza, in La vita idiota (a cura di Fabrizio Cavallaro, 2015), e che adesso sono contenute nel volume che da anni aspettavamo, predisposto da Siciliano medesimo prima della sua scomparsa (a Roma, il 9 giugno del 2006, lui appena settantaduenne), accuratamente predisposto da Flavio Santi con una bella prefazione di Raffaele Manica: Racconto di romanzi e di poeti (Luigi Pellegrini editore, pp. 317, € 18,00).

Si tratta di una cinquantina di testi, fra articoli e saggi più distesi, cronologicamente disposti fra il 1978 e il 2005, dunque riferibili alla piena maturità di Siciliano che, retrospettivamente, si conferma non solo un notevole saggista, forte di una prosa che appare raffinata senza perdere mai di consistenza, ma innanzitutto uno straordinario interprete di destini letterari e artistici. (E non per caso Siciliano scrisse alcune biografie come fossero i necessari segni di interpunzione della propria vicenda d’autore: Alberto Moravia (1971), Puccini (’76), Vita di Pasolini (’78), e da ultimo, dedicato a Mario Mafai e al suo entourage, Il risveglio della bionda sirena (2004), per tacere della ipotizzata biografia della vecchia amica Giovanna Bemporad che purtroppo non leggeremo). In Racconto di romanzi e di poeti oggetto è il Novecento italiano ma trattato sull’abbrivo di quell’Ottocento («L’Ottocento non è mai finito») affidatogli da un compagno di via specialissimo, quel Luigi Baldacci cui si deve un titolo addirittura programmatico, Ottocento come noi (Rizzoli 2003), che qui spiega per esempio la scelta di iniziare dall’Ortis (1802) la disamina del romanzo quale genere contraddittorio e largamente deficitario della letteratura nazionale, dove sempre si può cogliere «un’insolvenza che riguarda i destini generali del Paese».

È proprio questa ai suoi occhi, e qui sia detto per inciso, la tabe che inficia ab origine la piccola borghesia italiana, vale a dire la base di massa che prima ha sostenuto il fascismo, poi il clericalismo postbellico e da ultimo, da plebe arricchita e insolente, il sistema della autocrazia televisiva. L’ottica è nettamente anti-avanguardistica ma la carrellata degli autori presenti è tuttavia spettacolare, dai canonici Pascoli e d’Annunzio agli ex lege (Volponi, d’Arzo, Luigi Bartolini, Noventa, Corrado Alvaro), pure se il campo è tenuto per lo più dagli autori di cui Siciliano è stato diretto testimone, ovviamente a partire da Moravia, Pasolini, Attilio Bertolucci il cui ricordo, al di là dei rilievi specifici, assume perciò stesso un valore ermeneutico. Scrive Santi al riguardo che «i ricordi personali scivolano nella tramatura critica come fili multicolori che ravvivano il tessuto» e, quanto a ciò, rinvenendone di scorcio la fisionomia, Manica nota che «la vita di Siciliano era la letteratura che a sua volta era la forma dell’esperienza».

In effetti, se l’ariosità e la grana volentieri preziosa della sua scrittura può anche mandare in fuorigioco il lettore, nel senso di deviarlo ingannevolmente verso la prosa d’arte, c’è comunque del metodo nell’orientarsi istantaneo della sua percezione.

In altri termini, Siciliano è uno spitzeriano virtuale che non muove necessariamente da un dettaglio linguistico o stilistico (il celebre clic che vale l’ossicino di Cuvier a ricostruire un intero corpo autoriale) ma procede sempre e in assoluta libertà da un’immagine, da un riflesso della memoria, da un dettaglio incistatosi nel senso comune di lui lettore.

Non è neanche da immaginare (se non da lontano, per vicinanza topografica e comuni amicizie) una soverchia affinità con l’altro grande irregolare della critica che fu Cesare Garboli: ma Garboli invertiva a sua volta il Contre Sainte-Beuve proustiano muovendo dall’opera di uno scrittore per inoltrarsi nei misteri e nei casi irresoluti della relativa biografia, mentre chi ha scritto Autobiografia letteraria (apparso nel ’65, violento scongiuro davanti alla cosiddetta morte dell’autore e ogni feticismo della struttura letteraria in sé) deduce dalla particola di testo tutta una serie di riflessi e assonanze che via via ricompongono l’insieme: Siciliano ha studiato all’università con Natalino Sapegno (come dire l’obbligo all’inquadramento storico) ma ha abbastanza frequentato Giacomo Debenedetti per non apprendere che in qualsiasi percorso d’autore si cela una figura così persistente, ossessiva, da tradursi in emblema di un destino. Riconoscendone volta a volta la presenza, Siciliano la nomina legandola all’aforisma critico (cioè a una rapida sintesi fisiognomica) di cui è maestro.

E si potrebbe abbondare negli esempi. Cardarelli:«Era un nihilista del cuore, ma una specie di cruda passione per la vita lo perseguitava: egli desiderava metterla sotto silenzio»; Alvaro: «non si stancò mai di indagare il carattere degli italiani, (…) c’è in lui il rigore conoscitivo»; Bartolini: «Scatto virile che assolutizza solitudine e sensualità ma anche rabbia, insolenza, tenerezza»; fino al paradossale epigramma devoluto alla presunta chiarezza di Sandro Penna («Tutto pieno di una luce dove niente brilla ma dove tutto è luminoso») o la definizione della Stimmung di Giorgio Caproni, «poeta di nostalgie così intense e profonde (…) poeta di una nostalgia ontologica».

Andrebbe interrogato il sostanziale vuoto circa gli scrittori nati a cavallo fra gli anni trenta e quaranta (ma dei coetanei c’è Raboni e c’è una pagina bellissima su Massimo Ferretti, il poeta beat di Allergia) ma viene fatto ampio credito a quelli nati negli anni cinquanta che peraltro Siciliano ha sempre avvalorato con il proprio lavoro di cross country in «Nuovi Argomenti»: sono oggi fra i migliori della nostra letteratura, quali il poeta Milo De Angelis o i narratori Claudio Piersanti (di cui rammenta «l’italiano parlato al grado zero con vivacità impressionante tanto lo rende vivo»), Edoardo Albinati, Aurelio Picca (qui analizzato in un suo libro di singolare qualità, Tuttestelle, 1998) fino all’esordio di Mario Desiati, Neppure quando è notte (2003). Invece, quella sera di Ancona, ripensando al destino di Dario Bellezza gli venne da concludere che il suo amico leggeva Leopardi come fosse un poeta maledetto.