In attesa di avere tra le mani il prossimo mese di settembre il catalogo che già si preannuncia sorprendente nel fissare l’eredità multi e infra-disciplinare artistica e intellettuale di Ezio Gribaudo (1929 – 2022), è buona prova agguantare della mostra allestita al Museion, il museo d’arte moderna e contemporanea di Bolzano, alcune suggestioni suscitate e raccolte durante la giornata inaugurale avvenuta l’ultima settimana dello scorso mese di marzo. Innanzitutto, a colpire nel segno – opportunamente sottolineato dal titolo della mostra, quel Weight of the Concrete (prelievo diretto da un libro sessantottesco, eponimo di contestazione e, dunque, rivoluzionario, che in modo sincretico allineava il segno grafico di Gribaudo agli esperimenti di poesia concreta di Adriano Spatola e di molti altri, tra cui la mai troppo lodata e formidabile Patrizia Vicinelli) – è l’allestimento estremamente teatralizzato di Davide Stucchi.

Biograficamente qui si evidenzia la propria formazione artistica che non limita la curatela di Tom Engels e Lilou Vidal (con Leonie Radine), peraltro espansa sonorità poetiche concrete, solo a un’indagine letteraria e critica sull’opera dell’editore torinese, ma pare a un’osservazione più attenta rivolta a un uso «straniante» (piace scomodare Brecht, ma qui la derivazione sembra più beckettiana e dà l’idea di spostarsi verso l’auto-referenzialità di un’arcicosa di un dimenticatissimo Robert Pinget) dell’oggetto artistico collocato in uno spazio che reinventato come dispositivo si colloca al contempo come display analogico sul quale il visitatore può dispiegare il proprio sguardo. Pertanto, non pare un caso che alcune opere di Stucchi si trovino in Renaissance, la mostra collettiva di giovani artisti ospitata nello stesso periodo dal Museion. Per cui l’interrogativo, da porsi di fronte alla teoria di opere esposte, è come queste siano state dispiegate da Gribaudo nel tempo e nello spazio. Nel mezzo, vi è la constatazione che le medesime siano state influenzate dai processi industriali dell’editoria della seconda parte del ‘900.

Un’influenza che Gribaudo rese reciproca sia come editore tanto come artista. In tal direzione si muovono i Logogrifi, la serie più nota realizzata e ulteriormente sviluppata da Gribaudo dagli anni sessanta e per quasi due decenni. All’interno di questi si sono successivamente radicati altri progetti in cui acromia, colore, lettering, gioco e sperimentazione si rincorrono fondendosi o sciogliendosi in frasi enigmatiche e campi «pittorici». Quest’ultimi legati alle affezioni artistiche rivelatasi nei libri editati e nell’archivio delle carte dell’artista, ricostruito nell’allestimento e diventato «vivente» per come riesce ad agire contestualmente alle opere in mostra.