Ha raccontato Angela Carter verso la metà degli anni settanta che da bambina, per un suo compleanno, la madre le regalò un piccolo albero di rose. Lo trovò sul tavolo apparecchiato per la prima colazione, minuscolo accanto agli altri regali. Naturalmente ne restò delusa. Ci sarebbe voluto parecchio tempo per capire come l’albero di rose non fosse un regalo per la bambina che quel giorno compiva gli anni, ma per la donna che poi l’avrebbe ricordato. Immoto in fondo al «pozzo mutevole della memoria», incapace di appassire, il piccolo albero di rose scintillava oltre il tempo come dotato di magiche proprietà ignote anche alla madre, una parte inesplorata di sé che poteva ancora donare a sua figlia. Un femminile mandato e insieme un luminoso passaggio di testimone.
Non ci sono alberi di rose sul tavolo imbandito per la festa di compleanno con cui Anne Enright, all’università di East Anglia allieva in scrittura creativa di Angela Carter, dischiude il sipario del suo settimo romanzo, Actress, uscito lo scorso febbraio in lingua originale e ora pubblicato in italiano da La nave di Teseo con il titolo appena infedele L’attrice (traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, pp. 332, € 19,00). Nessun oggetto potrebbe anzi sembrare più diverso da un albero di rose dell’anello con pietra verde, «smeraldo nero» la chiama lei, che Katherine O’Dell lascia in eredità a Norah e che Norah, per quanto da bambina abbia desiderato tenerlo per sé, nel romanzo non saprà ritrovare. Come l’albero di rose tuttavia quell’anello diventa un talismano che fende il tempo illuminandolo, e assume nel testo l’aspetto fatale di un viatico, la faccia sconosciuta di sé offerta morendo dalla madre alla figlia. Katherine è la madre in Dior nero d’annata che tiene trionfalmente la torta farcita di crema mentre passa dalla cucina al salotto, Norah è la figlia che quel giorno del 1973 – la Bloody Sunday ha già squassato l’Irlanda – festeggia a Dublino i ventun anni. Katherine è la bellissima attrice ormai in declino che sollevando la torta canta per la figlia Que sera sera con la sua magnetica voce. Norah userà a sua volta la propria per cercare di fermare sulla pagina qualche decennio più tardi la figura sfuggente benché amorosa del rapporto che le lega, il segreto luccichio di quell’anello.
Narrato da Norah in prima persona, increspato dall’impiego cursorio della seconda per imbastire in parallelo un dialogo molto complice con il marito, L’attrice non è solo la storia di una madre e una figlia. È il resoconto del viaggio che accettando di calarsi nel «pozzo mutevole della memoria» la figlia compie per capire chi sia stata sua madre e inseguirne il riverbero dentro la propria esistenza, decifrarne il misterioso, cangiante mandato. «È molto difficile descrivere la propria madre» dice Rosaleen in La strada verde (2016), il romanzo precedente di Enright, rivolta alla figlia Hanna che aggiunge: «È come se ci fosse un segreto che invece non c’è proprio». Né sembra una coincidenza, piuttosto un intenzionale richiamo, il ricordo in questo dialogo della messa in scena di Otello, interpretato dal famoso Anew McMaster, cui Rosaleen aveva assistito bambina la sera in cui fu dichiarata la seconda guerra mondiale. A quella stessa rappresentazione, racconta adesso L’attrice, era presente anche Katherine O’Dell. Lei però stava dietro le quinte a guardare suo padre Menton che recitava nella parte di Jago.
Che progettasse da tempo di scrivere un romanzo ambientato nel mondo del teatro Enright lo ha dichiarato più di una volta. Nata a Dublino nel 1962, cresciuta durante i Troubles, faceva l’attrice in compagnie universitarie mentre studiava lettere e filosofia al Trinity College. Durante il secondo anno suo marito Martin Murphy, oggi direttore del Pavillon Theatre di Dun Laoghaire, la scritturò per la parte di Constance in un allestimento di King John. Dopo la laurea è stata produttrice di programmi televisivi per la RTE. Del resto attore e scrittore, lo ha detto anni fa in un’intervista, condividono la generosa abilità di mettere qualcosa di sé in ogni personaggio senza identificarsi mai veramente in nessuno di loro. «Era sfiancante, lo sapevamo tutti. Le succhiava tutte le sue energie, questa faccenda di entrare nel personaggio, e poi stare nel personaggio, e poi, dolorosamente, uscire dal personaggio. Era così lungo il viaggio di ritorno nel mondo reale», riflette Norah in L’attrice. Sta parlando solo di Katherine o anche di sé? Optando per un acrobatico abbinamento dei ruoli Enright colloca insieme sulla scena del suo ultimo romanzo una madre che è un’attrice famosa e una figlia che per mestiere scrive libri. Anzi, forse il libro che il lettore ha tra le mani è proprio quello che il marito di Norah le suggerisce di scrivere sulla vita di Katherine O’Dell. «Non mi interessa il dramma di essere un bambino, ma il nuovo dramma di essere una madre», premetteva Enright in Fare figli. Inciampando nella maternità (2004), il saggio che l’ha resa nota. Lavorando come se osservasse la vicenda che narra attraverso una lente bifocale, riesce a trovare con L’attrice un incantato equilibrio tra questi due diversi, opposti per quanto prossimi fuochi prospettici. Né chi legge può essere certo che il titolo alluda soltanto a colei che è attrice per mestiere.
Più o meno verso metà romanzo, quando la storia di Katherine impercettibilmente slitta trasformandosi nella storia di Norah, la figlia ormai adulta osserva una foto di sé bambina scattata mentre guarda tra le quinte sua madre che recita sul palco. È questa – vi allude in copertina l’immagine di Lawrence Shiller scelta già per l’edizione inglese – la scena decisiva e insieme la cifra esatta del romanzo. Chi è l’attrice e chi è invece la comparsa? Si recita sul palco o piuttosto nella vita? Da che lato siede il pubblico? Cosa è vero e cosa è falso? La faccia di Katherine sullo schermo appare forse meno reale di quella che sua figlia guarda struccata la mattina mentre sbocconcella una fetta di pane tostato? A chi appartiene il corpo di una donna e chi predispone il destino che da quel corpo si direbbe fatalmente segnato? Edificando una struttura simile a una matrioska, procedendo non in sequenza cronologica ma per cerchi concentrici, ognuno dei quali rinvia allo svelamento di un segreto che non sarà mai quello immaginato dal lettore, Enright riproduce il flusso e la nebbia, le accensioni e i vuoti e gli scarti della memoria. Fotografie, pagine di diario, recensioni, lettere, articoli di costume, nastri registrati non sono che fragili appigli, trucchi inservibili per stringere lo sfavillio amato di un corpo ormai dissolto. Più sinuoso rispetto ai libri precedenti, meno acuminato, lo stile guizza mercuriale e volubile per riprodurre un calibrato monologo a due voci, il ritmo varia di intensità accordandosi all’intonazione separata ma concorde di una doppia esistenza. Ricorda il pulsare del sangue nelle vene.
«Penso al mondo avvolto nel sangue, come un gomitolo è avvolto nel suo stesso filo. E che se seguirò fino in fondo questo filo scoprirò cos’è che voglio sapere», scrive Anne Enright in La veglia (2007), il suo romanzo più famoso. Si tratta dello stesso filo che Norah afferra per raccontare non il successo e poi la caduta e la follia di sua madre, ma la storia ancipite di due donne che malgrado ogni violenza sopportata in silenzio, ogni segreta fragilità e ogni trauma privato, sono riuscite a convivere senza vergogna con il proprio talento. Attrici entrambe del loro personale destino.