Roma ha un lato oscuro; forse anche più d’uno. Lo sapeva bene Blaise Cendrars, che scrisse «solo la Roma delle Sibille, la Roma demoniaca, la Roma dei negromanti è stata grande, di una grandezza sotterranea e notturna, forse l’opera di una talpa ocellata, ma sicuramente l’opera di una talpa cieca, nascosta e interrata, e tutto quello che si è eretto orgogliosamente sulla superficie della città è stato segretamente abbattuto da questa bestia». Non a caso il volto demoniaco e negromantico della Città Eterna ha ispirato sceneggiati televisivi tra il giallo e il soprannaturale come Il segno del comando, diretto da Daniele D’Anza, o Voci notturne, scritto da Pupi Avati. Le sponde del Tevere, e il fiume stesso, si prestano assai bene a fungere da fondale per trame che scandagliano i segreti inconfessabili e le tombe celate di una metropoli dalla storia lunghissima e ricca di episodi oscuri, non di rado sanguinosi; altre suggestioni derivano dalla presenza del Vaticano con i suoi segreti, le catacombe, i relitti dell’antica religione pagana, e una continuata tradizione esoterica attestata da innumeri monumenti e manufatti, prima tra tutti la Porta Magica voluta dal marchese Palombara nel XVII secolo.

È  questa la tradizione che viene coniugata in modo spiazzante e inatteso con la figura di un celebre scrittore vissuto a Roma meno di un anno e che ne conservò una pessima opinione: James Joyce, ora rievocato e giocato narrativamente da Enrico Terrinoni nel suo romanzo A Beautiful Nothing (Atlantide, pp. 282, € 18,50), sospeso tra letterario e misterico, tra storia e mito, tra ricostruzione documentata e libero gioco dell’immaginazione. Certo, siamo più abituati a pensare il grande irlandese nella prospettiva delle avanguardie letterarie, della psicoanalisi, della linguistica, della travagliata storia del suo paese, del translinguismo e del cosmopolitismo – ma Terrinoni, che ha compiuto l’opera immane di tradurre le labirintiche pagine di Joyce, e ne ha scritto dando prova di una conoscenza intima, quasi carnale, ci mette sotto gli occhi come tra i numi tutelari dell’autore dell’Ulisse e del Finnegans Wake ci fosse un inglese che venerava, William Blake, il poeta più esoterico e visionario espressosi nella lingua imposta alla celtica Irlanda. C’è una vena di simbolismo iniziatico, di magia, di irrazionale, in tutta la scrittura joyciana, della quale Terrinoni è ben consapevole, e che autorizza questo suo esperimento narrativo, che al tempo stesso scava in un periodo assai particolare (e cruciale) della vita di Joyce – il suo soggiorno capitolino del 1906-1907, durante il quale concepì «I morti», ultimo racconto di Gente di Dublino, ed ebbe l’idea embrionale che poi sarebbe sfociata nell’Ulisse.

Il dispositivo romanzesco è classico: un anziano docente universitario di letteratura irlandese a Roma coinvolge tre suoi studenti in una ricerca che ha condotto per buona parte della sua vita, centrata sui contatti di Joyce con alcuni personaggi legati a un ordine religioso intitolato a San Fiacre (uno di quei santi irlandesi venerati solo nell’isola e dove sono emigrati i suoi figli). Dalle lettere dello scrittore traspare una sua persistente inquietudine innescata dal Tevere, nonché accenni a una donna e un delitto; il vecchio professore sospetta che questi siano indizi di un episodio sconosciuto della vita di Joyce, forse una relazione extraconiugale, forse un fatto di sangue che lo coinvolse, in ogni caso qualcosa di inconfessabile. E misterioso è anche l’ordine, forse una semplice confraternita di devoti, forse una congrega che pratica arti occulte e giunge fino a officiare riti misterici. Ricorre inoltre, nella vicenda, un irlandese che pare uno straccione, ma sa molto – forse troppo – degli enigmi legati ai mesi romani di Joyce.

Da ogni sua incursione nel misterico e nell’esoterico, Terrinoni riesce comunque a tornare alle pagine del grande irlandese, arricchendo con questa sua fantasmagoria la nostra comprensione dell’Ulisse e del Finnegans Wake, nonché della storia segreta della città eterna.