Enrico Masi, filosofia dell’atomo al cinema
Intervista Con «Terra incognita», presentato al Festival dei popoli di Firenze, il regista completa il suo grand tour documentaristico
Intervista Con «Terra incognita», presentato al Festival dei popoli di Firenze, il regista completa il suo grand tour documentaristico
La vastità del progetto di Terra Incognita di Enrico Masi (al Festival dei Popoli il 6 novembre) ti cattura come in un viaggio nel tempo e nello spazio, ricreando la vertigine delle origini dell’umanità con la scoperta del fuoco fino alle più avanzate ricerche nucleari, grazie al magnifico impianto creativo in sintonia con la vastità del soggetto («qui c’è John Ford» aveva commentato Adriano Aprà, suo grande sostenitore fin da Lepanto). Non estetica della scienza, ma piuttosto ricerca filosofica, associazioni di parametri, con un congegno dialettico tra una famiglia che vive nella valle alpina a impatto zero, ma ben attrezzata culturalmente e le centrali del progetto ITER (International Termo Nuclear Experimental Reactor) enorme cantiere transnazionale che cerca di riprodurre l’energia solare attraverso il processo della fusione. Con Stefano Migliore(Caucaso), riprese in cinemascope 35mm, il sostegno della Rai e il montaggio firmato da Benni Atria e Carlotta Guaraldo, affiancato da Alessandra Lancellotti, la visione diventa esperienza dove ridisegnare le mappe del nostro passato e del futuro. Un congegno già messo a punto nel precedente Shelter dove la mitologia non svanisce nell’attualità.
Colpisce nel tuo film la vastità del progetto, oltre a intraprendere un viaggio di bellezza e profondità verso dimensioni sconosciute
È stato girato in sei paesi, ma non in un solo luogo. Il mio è un approccio che si ispira al geografo Franco Farinelli, una distopia cartografica che è anche generazionale. Io ho 41 anni, la nostra generazione ha vissuto continui spostamenti per studio e lavoro: questa geografia credo si rifletta nel film, è un geografia composita per me, in una lingua unica, non sono lingue diverse e questo già nel cinema, nel documentario non è così comune. Comunicare con tutto il mondo per la generazione più giovane della mia è ancora più consueto. Questo si vede in generale anche nel cinema italiano, Minervini, Savona, anche Rosi con cui ho studiato sono film internazionali. Per Terra incognita non si tratta solo di codici linguistici, ma sono anche codici spaziali: i tre grandi modelli con cui ci siamo dovuti confrontare, e quattro con quello americano, Italia, Francia, Germania, sono i tre grandi modelli di approccio al nucleare, quindi siamo stati costretti a confrontarci con codici diversi e non fare un documentario sull’«atomico italiano» che comunque meriterebbe un approfondimento, cosa che abbiamo fatto in ogni caso per la Radio 3 con due documentari lunghi.
Quando hai cominciato a pensare a questo film?
A marzo del 2018 alla fine del montaggio di Shelter che era già un documentario geografico sulle migrazioni, un percorso dolorosissimo, con Stefano Migliore autore del soggetto (oltre che produttore e presidente di Caucaso) abbiamo pensato che servisse un affresco ambientale, per noi come autori per uscire da quella dinamica molto umana, corporea che avevamo vissuto con Shelter, per parlare di pianeta, di geografia. Purtroppo non è stato possibile perché nel pianeta ci sono sempre le persone, per quanto nel film non c’è un contesto urbano, c’è l’antropocene nel territorio. Non abbiamo parlato dell’approccio massimalista delle città, ma abbiamo parlato di come il territorio fornisce energia ai grandi agglomerati e abbiamo ritrovato l’umanità che è la famiglia tedesca che ne è la prova, ma anche la famiglia americana, due storie opposte ma intrecciate: i tedeschi partono dalla filosofia per diventare neorurali, l’americano parte dal rurale per diventare tecnocrate.
Il lato mistico che potrebbe suggerire il nucleare è smentito dalla scienziata, tra l’altro italiana, che, dice, si tratta solo di calcoli.
In questo progetto gli italiani sono protagonisti. Il direttore del progetto ITER è il dottor Barabaschi genovese, e tra l’altro il 6 novembre il giorno della prima del film ai Popoli, a Roma la Meloni ha un incontro con l’agenzia della fusione europea, non so quanto la Meloni sappia quanto l’Italia è coinvolta in ITER.
Che tipo di approccio hai con la scienza?
Si sviluppa attraverso Humboldt: la scienza, con la restaurazione post rivoluzione francese viene costretta nell’alveo del positivismo. Darwin stesso volgarizza la teoria ecologica di Humboldt che è una teoria rivoluzionaria (questo è fondamentale per il film e per la nostra visione). Humboldt è figlio dell’illuminismo quindi è figlio di Voltaire, la sua visione illuministica della scienza portata a compimento dalla rivoluzione francese, quindi da una scienza laica, da una scienza slegata da interessi che subito dopo diventano coloniali e anche imperialisti. Humboldt pensa a una scienza interamente laica quindi al servizio del progresso e non dell’industria. Con la restaurazione post rivoluzionaria, e quindi con il ’48 (ne parla anche Marx), ma soprattutto con il positivismo e poi con il ’900, la scienza invece viene costretta non soltanto dal capitale, ma proprio dall’industria a essere al servizio dell’industria e dell’economia. Io invece intendo la scienza come la intende Franco Farinelli o Ivano Dionisi o anche Umberto Eco, la scienza al servizio delle arti umane non al servizio dell’industria, poi l’industria segue, non è che siamo luddisti non neghiamo il progresso, ma il progresso è slegato dalla tecnocrazia e dall’industria. Oggi – e questo oggi dura dalla modernità, dalla restaurazione post rivoluzionaria – in questi duecento anni la scienza purtroppo è stata costretta a questo servizio, fino agli armamenti. Oppenheimer bisogna citarlo, perché è fondamentale, è schiacciato dall’arma mentre il suo pensiero nasce da una scienza laica, non dalla bomba a Nagasaki, poi c’è questa strana cosa di cui parla Nolan: lui vuole farsi riconoscere come americano e non come comunista ebreo e quindi deve fornire un supporto in termini di armi.
La scienza nel 900 ha fatto una deviazione significativa, verso un inconoscibile, un universo che contiene misteri da svelare, una nuova immagine del mondo delineata dai fisici. Si penserebbe piuttosto a una associazione della scienza con il misticismo piuttosto che con le arti.
Invece quell’associazione la fanno questi tedeschi, Goethe e Humboldt. Ricordiamo che il personaggio del Faust è ispirato dall’incontro di Goethe con Humboldt, questa persona poliglotta che viaggia in maniera indipendente, che non ha confine tra arte e scienza (lo dimostrala teoria dei colori di Goethe). Ma la restaurazione ha tolto questa attinenza della scienza con le arti che è anche medievale – Dante è uno scienziato – l’arte e la scienza sono sempre state così fino alla restaurazione. Con Terra Incognita vogliamo riprendere quel pensiero illuminista o almeno ricordarlo in un momento in cui la tecnologia oggi completamente dominante sulle nostre vite e sulla politica. Humboldt non arriva alla mistica, arriva al contrario a una sintesi cosmica che è molto ambiziosa, però è la sintesi dell’illuminismo. La metafora del film è la fusione, un problema ingegneristico, non un problema di inconoscibilità, però questo problema ingegneristico ti riporta a Prometeo: può l’uomo raggiungere la potenza del sole? La potenza del sole è quella che ha dato vita all’universo e alla terra, quindi ci sarebbe in questo inconoscibile un ruolo dell’umanità che ha al contrario un limite: può l’uomo raggiungere la potenza del sole? Penso ai limiti posti al progetto di ITER. È costato quanto un’Olimpiade, circa 50 miliardi ma in vent’anni, mentre la spesa annuale di difesa americana è 850 miliardi l’anno. Quindi se l’America decidesse di risolvere il problema della fusione la risolverebbe. Io credo che non la voglia risolvere, al di là del cambiamento di paradigma, che non ci sarebbero più le automobili e sarebbe un cambiamento epocale, ma quasi inconsapevolmente, per un’impossibilità «mistica» di raggiungimento del sole. Siamo in grado di raggiungerlo, ma in realtà ci fermiamo, come per un timore reverenziale dell’uomo nei confronti di qualcosa che è superiore della vita che ci appartiene. È incredibile eppure nella metafora atomica c’è questa ambiguità.
C’è una citazione di Humboldt nel film: «La realtà si è finora manifestata come un vero fantasma dell’immaginazione» che rimanda a un certo modo di fare cinema.
È il miraggio. In quel momento usciamo da Marghera su un cargo il cargo prosegue nell’Atlantico verso l’America, verso Tenerife, e in quel momento c’è un miraggio, la rifrazione della luce. Questo è sia Goethe sia l’invenzione del cinema, Lumière, la luce, anche quella degli illuministi. Il cinema è la registrazione della luce e noi non siamo sicuri che questi 35 millimetri corrispondano a quello che noi vediamo ed è l’idea del miraggio che quasi precede il cinema. È un tentativo tecnico della modernità, un tentativo sublime di condivisione direi anche pacifico e anche un’idea meticcia.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento