Enrico, l’ex enfant prodige che ha imparato dagli errori
Il ritratto Il rapporto con Andreatta e Prodi, la guerra con Renzi, le autocritiche su élite e populismi
Il ritratto Il rapporto con Andreatta e Prodi, la guerra con Renzi, le autocritiche su élite e populismi
Luglio 2007, marzo 2021. Da un video all’altro. Quasi 14 anni fa Enrico letta scelse un video, lui col laptop a bordo di un traghetto che ascoltava i desideri dei passeggeri sul nascente Pd, per candidarsi alle prime primarie del partito, quelle con Veltroni e Bindi. Scelse Youtube, parve uno scatto pionieristico di modernità, i social (almeno in Italia) non esistevano ancora.
Il Letta del 2007, appena quarantenne, era l’outsider liberal che sfidava il gigante Veltroni, al governo c’era Romano Prodi (con Enrico come sottosegretario), la grande crisi stava per arrivare ma era fuori dai radar della politica. Letta, pisano, classe 1966, era già stato due volte ministro, poco più che trentenne, era il rampollo dell’establishment ulivista, il meglio giovane della scuola di Nino Andreatta.
A quelle primarie prese l’11%, buona base di partenza per radicare la sua corrente (non le ha mai snobisticamente schifate) nel partito che nasceva.
Letta, il secchione predestinato, aveva tutto il futuro davanti. E in pochi anni quel sogno si realizzò: prima vicesegretario dal 2009 al 2013 con l’amico Bersani, poi il passaggio di testimone e la salita a palazzo Chigi, per guidare quella Grande coalizione che Pier Luigi aveva cercato in ogni modo di evitare.
Fu una navigazione complessa, come tutti i prudenti Letta cercò di evitare i rischi, pensava che l’Italia fosse come un malato in convalescenza dopo la cura Monti, bisognosa di interventi graduali e non di altri traumi. Si concentrò sull’abolizione (per decreto) del finanziamento pubblico ai partiti, lo considerava l’unica strada per tagliare le unghie al M5S.
Riuscì a resistere, grazie all’amico Alfano (con cui si era creato un feeling generazionale alle convention trentine e bipartisan di Vedrò), alla condanna e alla decadenza di Berlusconi, che uscì dal governo. Non alla rottamazione di Renzi che – mentre Bersani era a letto malato – convinse tutto il Pd a defenestrarlo da palazzo Chigi.
La sinistra dem, pochi mesi prima, gli aveva consigliato di sfidare Renzi alle primarie del dicembre 2013, lui preferì mantenere il profilo istituzionale da premier, stringendo con l’allora sindaco di Firenze una sorta di accordo: a me il governo a te il partito, riassunto nel celeberrimo hashtag #enricostai sereno.
Come noto, Renzi non mantenne la parola. E a febbraio del 2014 il gelido scambio della campanella a palazzo Chigi, pochi secondi in cui Letta non guardò mai in faccia il rivale, è passato alla storia. «Il silenzio esprime meglio il disgusto e mantiene meglio le distanze», commentò Letta anni dopo, quando Renzi in un libro disse «il suo governo era immobile, fu tutto il Pd a voler cambiare cavallo».
Fino al giugno 2015 restò deputato semplice. Poi a settembre la nuova vita: direttore dell’Istituto di affari internazionali di Sciences Po, a Parigi. L’esilio dorato, l’esperienza di insegnante a tempo pieno, il rapporto con i millennials, l’amicizia con Jacques Delors. Il giovane predestinato, alla soglia dei 50 anni, si trova un lavoro prestigioso fuori dalla politica che masticava fin da ragazzino.
Nel 2019 racconta la nuova vita nel libro Ho imparato. «Sono stati gli anni più intensi e carichi di insegnamenti della mia vita», scrive. E ragiona sull’avvento di populismi e sovranismi, «hanno vinto per gli errori delle élite che si sono suicidate per un mix tossico di autoconservazione e machiavellismo politico». Il populismo quindi come «un grido di dolore» di un popolo che non si sente più rappresentato. Come un «alibi perfetto dell’establishment per sottrarsi alle proprie responsabilità».
Da europeista convinto riflette sugli errori dell’Europa, sui limiti della globalizzazione, sulla sostenibilità ambientale e sociale. Un Letta che, come altri leader di sinistra e dell’Ulivo, da D’Alema a Bersani, fa autocritica sul blairismo, su un modello di sviluppo mainstream che ha aumentato le diseguaglianze e distrutto l’ecosistema. Mario Draghi resta però un punto fermo, un modello: e questo legame ha pesato e molto sul clamoroso ritorno di Letta alla guida del Pd.
Sull’immigrazione invece era già avanti: con l’operazione Mare Nostrum aveva sfidato i populisti salvando vite in mare. Di politica italiana in senso stretto, in quegli anni parla poco, ma ribadisce a più riprese l’utilità delle coalizioni proprio negli anni in cui Renzi porta il Pd a schiantarsi in solitudine.
Con il rottamatore la sfida va avanti a colpi di libri: e se Enrico aveva descritto un filo rosso tra vaffa, ruspa e rottamazione, Grillo, Salvini e Renzi, «tutti e tre si sono serviti della distruzione dell’avversario per raggiungere il potere», Renzi risponde col suo stile: «Meschino, accecato dal rancore personale e dall’odio ideologico». Letta replica con un tweet ironico a modo suo: «Il vero titolo del libro di Renzi? Non ho imparato…».
La storia dà torto e dà ragione, si potrebbe dire oggi che il Pd richiama a gran voce il Letta- Cincinnato, mentre di Renzi si parla ormai solo per i viaggi in Arabia e i suoi vedovi rimasti nel Pd si acconciano a sostenere l’ex nemico sperando che, al momento di fare le liste, lui non si lasci tentare dal piatto freddo della vendetta.
E tuttavia, in un libro del 2017, «Contro venti e maree», Letta si era già espresso sui «partiti ridotti a casse di risonanza del capo dove fregare gli altri sembra un valore». Ora inizia la sua second life politica. E non sarà un pranzo di gala, ça va sans dire.
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