Quasi sempre l’immaginario pittorico di Enrico Della Torre si è mosso sulle sponde dell’Adda: il fiume che attraversa Pizzighettone, dove nacque nel giugno 1931, e di cui ha risalito a ritroso la corrente fino ai monti della Valtellina, dove si è spento il 29 luglio 2022. Era sufficiente osservarne la riva per apprendere il ritmo astratto dei filari d’alberi, traducendoli con sintassi lirica e geometrica, persino architettonica negli anni più maturi. Ma era come se bastasse immergersi sott’acqua per imbattersi in uno scenario notturno popolato di presenze: due cerchi a distanza ravvicinata come occhi emergenti dall’oscurità.

PRESTO DECISE che questo sarebbe stato il suo universo, chiudendo fuori dalla porta dello studio di Milano – dove aveva studiato a Brera e dove si era stabilito negli anni Sessanta – il rumore di una città in rapida trasformazione: per sé scelse una dimensione ascetica e sofisticata, che nel rigore del lavoro placava un’inquietudine esistenziale tutt’altro che fuori tempo. Per tutta la vita, infatti, aveva unito alla libertà della pittura la disciplina dell’incisione, tanto che a quest’ultima aveva dedicato già nel 2012 un catalogo ragionato, firmato da Sandro Parmiggiani, prima di decidersi a riordinare quello dei dipinti, curato da Francesco Tedeschi, anch’esso per i tipi Skira, nel 2021. In questa oscillazione stava il contrasto fra l’istinto a una grafia fluida e una limpida nitidezza.

LO AVEVA CAPITO Guido Ballo, nel 1955, definendo la sua una generazione di «antiscapigliati», che volevano raccontare un ricco mondo interiore, tornando alle luci di Morandi e Matisse come antidoto all’Informale lombardo. «La passione», aveva annotato nel 1958, «va fermata e spiegata con un linguaggio il più teso possibile».
La «lirica razionalità» di cui parlerà Roberto Tassi, che più di altri credette nel suo lavoro, ne aveva fatto un pittore caro ai poeti, da collocarsi nel museo immaginario di Vittorio Sereni – folgorato a fine Settanta dalla luce estiva e intensa di un suo dipinto – e fra le sobrie predilezioni di Dante Isella, nonché nei piccoli libri di Vanni Scheiwiller.

È PIÙ CHIARO, così, il senso di una ricerca estranea alla retorica magniloquente di molta avanguardia, di tono pacato e spirito riflessivo nell’arte quanto nella vita. Lo ricorda un suo quadro dipinto nel 1958, ora al Museo del Novecento di Milano, che Enrico ha amato moltissimo: una Felce di pochissime, analitiche righe. Ancora una volta sulle sponde del fiume, a pelo d’acqua.