Il 9 novembre 1983 il poeta e traduttore Roberto Sanesi, indirizza all’amico pittore Enrico Baj una cartolina: sta leggendo Automitobiografia, appena pubblicato da Rizzoli, «con grande piacere, e un po’ di commozione (decadente, eh?), e nostalgia». Sanesi era stato testimone diretto e partecipe di quelle vicende, ma questo non deve indurre a considerarlo un libro per nostalgici: a distanza di quindici anni dalla sua uscita, stando alle carte dell’archivio Baj, persino un giovanissimo Roberto Saviano si sarebbe potuto entusiasmare per quel libro, non più ripubblicato fino alla recente riedizione, con prefazione di Angela Sanna e un inedito sedicesimo di immagini a colori, da Johan & Levi (pp. 272, euro 23,00).
Sulla copertina del 1983 compariva un sottotitolo (editoriale?), che avvisava il lettore di una narrazione «Dai nostri giorni alla nascita»: una mossa «patafisica» e surreale di astuta proiezione sul passato delle ragioni del presente. Quando scrive questo libro, Baj, nato nello stesso anno di fondazione del Surrealismo (1924), ha quasi sessant’anni: dopo grandi mostre e riconoscimenti internazionali, dopo aver redatto un primo catalogo ragionato insieme a Enrico Crispolti nel 1973, ha lasciato la natia Milano per trascorrere gli anni fino alla dipartita nel 2003 assieme alla seconda moglie Roberta a Vergiate nel varesotto, vicino a Comabbio dove era morto Lucio Fontana. Si apre qui, dunque, un momento di decantazione in cui consegnerà a Rizzoli altri libri, dall’ironico manuale Impariamo la pittura (1985) e Ecologia dell’arte (1990), firmando persino una prefazione alla riedizione de La tecnica della pittura di Gaetano Previati nel 1990.
Resterà deluso il lettore in cerca di una dettagliata cronaca della nascita del Nuclearismo – a quattro mani con Sergio Dangelo – o della costituzione del Collegio di Patafisica, nel cuore di un’avanguardia che parla francese. Il lettore incontrerà in Automitobiografia, che orecchia Autorotella di Mimmo Rotella (1977) e ne condivide un certo piglio libertino, un racconto piano e autocentrato, senza ambizioni di prosa d’arte, in cui si enumerano a briglia sciolta episodi del passato, facilmente estrapolabili come testimonianze autonome (dall’annuncio che «Qui non si fanno prefazioni» affisso da André Breton, «grande Indicatore della pittura moderna», alla porta del proprio appartamento, alla morte di Yves Klein, «posseduto dal demone dell’esibizionismo», la cui crisi «prima che cardiaca fu mistica»), e riflessioni al presente.
Sono memorie piene di libri, dalle edizioni illustrate per gli amici poeti (da Queneau a Sanguineti, a Sanesi) al singolare Dame e generali del 1964 «rilegato in stoffa da materasso», fino alle onnivore e voraci letture. Quelle di Baj, come si disse già di De Chirico, erano mani che avevano sfogliato molti libri, condivisi in parte con l’amico scultore Alik Cavaliere: in anni contigui avevano fatto i conti col De rerum natura. Ecco allora le letture sul femminismo, via Freud e Levy-Strauss, a latere dell’elaborazione delle Donne di casa Baj, comiche e disarmate compagne dei suoi Generali, che aveva ribattezzato con altisonanti nomi di regine e cortigiane ripescati enciclopedicamente dalle maglie della Storia. Eccolo però anche far visita alla vedova dell’anarchico Pinelli e leggere i libri trovati nella sua biblioteca prima di dedicargli il grande fregio del 1972 per una mostra a Palazzo Reale mai inaugurata causa il concomitante omicidio Calabresi.
Non sarebbe passato molto tempo, però, prima che Gli otto peccati capitali della nostra civiltà dell’etologo Konrad Lorenz innescassero l’idea della grande Apocalisse, accompagnata da un libretto a cura di Umberto Eco, che lo seguiva da tempo, complice forse la frequentazione dello Studio Marconi, o, prima ancora, il rapporto con Queneau, fra i pilastri della riflessione di Eco sul linguaggio. L’Istituto Patafisico Milanese, presente lo scrittore francese e «reggente» di OULIPO nel «Collegio Patafisico», si inaugurava a marzo 1964 in un locale di via Brera: lo stesso anno in cui Baj era presente alla Biennale di Venezia, subendo singolare censura, presentato da Queneau, mentre Eco lo invitava all’edizione della Triennale di Milano dedicata al tempo libero, a cura sua e di Vittorio Gregotti.
«Il passato», osserva Baj, «spesso filtra da un’anta socchiusa». La sua stessa modalità narrativa continuamente digressiva, come fa notare Angela Sanna e come afferma l’artista stesso, è in sintonia con la pittura: per Baj, che lo afferma esplicitamente, i meccanismi della memoria, il senso della scrittura autobiografica, e le stesse parole, e con loro la costruzione del pensiero e del ricordo, sono degli assemblage coerenti con una civiltà totalmente meccanizzata e «fatta tutta di ingranaggi, pulegge, pistoni, leve e ruote». Proprio Baj aveva dichiarato: «la pittura ha sempre largamente guidato la mia vita, la mia gestualità e persino la mia sessualità: la mia prima moglie era modella per pittori, la seconda è abilissima incollatrice, in specie nel genere images d’Épinal e ben si sa che per me la pittura è colla, la viscosità adesiva prevaricando, nelle mie pulsioni, sulla cromaticità ottica del pigmento».
Ne è prova la rivisitazione con «gusto del remake» del pontillisme di Seurat in un d’aprés a dimensioni originali della Grande Jatte di Seurat (1970-’71) a collage di stoffe, ma ricoperta poi a punti di colore: sulla scia delle «trascrizioni di altri pittori» (da Picasso a Duchamp), il punto gli sembra un’eredità della pittura di gesto, ma è anche la montagna di coriandoli che chiede all’editore di grafica Jean Petit di dividere per colore in vista di un libro d’artista: il colore si è come «atomizzato», è diventato una parafrasi del medium pittorico.
L’arte del ricordo somiglia insomma a un grande guardaroba in cui le vicende si accumulano come nel deposito di stoffe, bottoni, medagliette e passamanerie da cui ha attinto materia prima per collage. Ma nella sua vita Baj aveva incontrato almeno un’altra «macchina raccoglitrice», con cui condivideva tra futurismo e marxismo la passione per il mito della macchina, che stava costruendo un grande archivio in cui «trovi di tutto: anche quello che tu, che nei sei l’autore, non hai». Se ne era ben reso conto durante il lavori per il catalogo generale: «non c’era niente da fare, l’archivio del Crispolti sembrava essere stato eretto per contraddirmi, smentendomi».