«C’è sempre qualcosa di meglio della morte»: è uno dei tanti Leitmotiv che attraversano come mantra la produzione letteraria di Per Olov Enquist, in questo caso preso in prestito da una favola dei fratelli Grimm, I musicanti di Brema.

L’ostinato invito a non arrendersi deve essergli risuonato in testa nel momento più drammatico della sua esistenza, descritto nell’autobiografia Un’altra vita (Iperborea, 2010): la fuga notturna, a piedi scalzi, nella ghiacciata distesa islandese in cui sorgeva l’istituto di recupero per alcolisti in cui era ricoverato: «Non sono forse una specie di essere umano, dopo tutto, anche se di me non restano che dei rimasugli? E allora devo concludere questa corsa in modo onorevole, non salendo sul podio e ottenendo un premio, ma una volta iscritti a questa corsa campestre bisogna arrivare in fondo, e raggiungere la meta, che non è certamente abbandonare la corsa e restare qui distesi a lasciarsi ricoprire di neve».

Quella fuga disperata che l’aveva portato così vicino alla morte gli aveva fatto capire che in realtà era vivere che voleva, non morire, e così aveva lottato, si era salvato e aveva iniziato la sua altra vita.

PER OLOV ENQUIST è scomparso sabato 25 aprile a 85 anni, raggiungendo la piccola «mandria» di amici morenti che lo aspettavano sulla riva del fiume nel suo ultimo lavoro, Il libro delle parabole (Iperborea, 2014). Era nato a Hjoggböle, un paesino di taglialegna del Västerbotten, nell’estremo nord della Svezia, terra di paesaggi aspri e di religiosità radicale, entrambi elementi che caratterizzeranno tutta la sua produzione.

Dopo essere stato una giovane promessa dell’atletica svedese – lo sport resterà sempre una delle sue grandi passioni, a dispetto della diffidenza con cui in genere tendono a vederlo gli intellettuali – si dedicò alla scrittura, entrando a poco più di trent’anni nel vivo della scena letteraria svedese con Legionärerna (1968, I legionari), un romanzo sull’estradizione in Unione Sovietica di 146 soldati baltici che avevano combattuto a fianco dei tedeschi nella Seconda guerra mondiale, con cui scatenò un dibattito morale che scosse nel profondo la social-democrazia svedese. Seguì un periodo di grande fermento creativo, con romanzi, saggi e soprattutto opere teatrali di grande successo, che lo portarono a trascorrere lunghi periodi a Copenaghen, Berlino, Los Angeles, Parigi.

IL PUNTO PIÙ ALTO di questa prima fase della sua produzione è forse La partenza dei musicanti (Iperborea, 1992), tragico epos di una famiglia di braccianti e taglialegna del Norrland, stretta inesorabilmente tra le prime lotte sindacali di inizio Novecento e la presenza ingombrante dei movimenti di risveglio religioso con la loro fede opprimente.

Ma al destino quasi verghiano che perseguita i personaggi fino a spingerli all’emigrazione in America – come più di un milione di altri svedesi in quegli anni – si oppone la lezione che il giovane protagonista ha imparato da un vecchio asino, un cane da caccia ormai inutile, un gatto rognoso e un gallo rauco: «C’è sempre qualcosa di meglio della morte».

A SEGUIRE, QUASI DIECI ANNI di crisi, di buio, di silenzio, raccontati senza risparmiarsi in Un’altra vita. La rinascita passa attraverso la scrittura, quella che a lungo gli era sembrata impossibile, e il risultato sarà La biblioteca del Capitano Nemo (Giano, 2004), un libro sulla resurrezione con cui Enquist avrebbe «annodato la fine della sua vecchia vita e l’inizio dell’altra vita che ora aveva ricevuto in dono»: una sorta di autobiografia sotto forma di metafora, in cui tutti i temi della sua precedente produzione sono raccolti e portati a compimento: l’infanzia solitaria, l’abbandono, il tradimento, la scrittura, la ricerca di un’identità.

DA QUEL MOMENTO – siamo nel 1990 – Enquist entra in una sorta di stato di grazia, con capolavori come Il medico di corte (Iperborea, 2001), che unisce il racconto storico della parentesi liberale instaurata in Danimarca trent’anni prima della rivoluzione francese, alla storia d’amore tra la regina e l’illuminista tedesco chiamato a occuparsi prima del re semi-folle, poi del regno stesso: due utopie ovviamente destinate al fallimento, con il ritorno dell’assolutismo nel regno, l’esilio della regina e la decapitazione del medico.

La storia, o i documenti, sono stati spesso di ispirazione per Enquist. I suoi protagonisti sono spesso personaggi reali: scrittori come Hamsun, Strindberg o Andersen, scienziati come Marie Curie o Jean-Martin Charcot, o re e rivoluzionari come Cristiano VII di Danimarca e il suo medico Johann Friedrich Struensee.

Ma in lui la storia e il documento vengono impastati e trasfigurati da una lingua limpida e personalissima, fatta di termini dialettali e citazioni bibliche, da una narrazione elaborata, da un ritmo quasi ipnotico ottenuto grazie a una punteggiatura peculiare e sincopata, e soprattutto dall’intreccio continuo con la propria storia, i propri «punti dolenti»: traumi o eventi significativi che tendono a nascondersi nei buchi neri della psiche, a restarne incapsulati, ma che proprio per questo tornano all’infinito, in cerca di un’esternazione perennemente negata.

IL RICORRERE di immagini ed espressioni da un libro all’altro è uno dei segni distintivi della scrittura di Enquist: oggetti e frasi che attraverso una continua stratificazione di riferimenti assumono un significato simbolico, creando una risonanza tra i diversi romanzi che finisce per trasformare l’opera complessiva dello scrittore in un’immensa cassa armonica che trasmette un messaggio segreto.

Come l’arpa celeste che compare in tante delle sue opere: «I fili del telefono erano fissati alla parete della casa, la casa era di legno e l’aveva costruita papà, era come un’enorme cassa di risonanza, e i fili cantavano. L’arpa celeste cantava come se qualcuno là fuori nella notte invernale passasse una mano gigante sulle corde, cantava mille anni di dolore e perdono, un canto triste e senza parole, per tutta la notte; un’estremità dei fili era fissata a una casa del Västerbotten ma l’altra era appesa da qualche parte nello spazio, alle stelle morte e nere. Il canto veniva dallo spazio, era senza parole e parlava di chi non aveva parole. Non dimenticarci, cantava, siamo come te, non dimenticarci».