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Ennio Flaiano, saldamente piantato su una nuvola

Ennio Flaiano, saldamente piantato su una nuvolaDa «Oceano Canada»

Anniversari Cinquant'anni fa moriva un grande scrittore «postumo», sceneggiatore, e, forse, regista mancato: ritratto

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 19 novembre 2022

Cento anni dalla nascita di Pasolini e cinquanta dalla morte di Flaiano. Due scrittori, due intellettuali – scomparsi troppo presto – che hanno contribuito non poco alla storia del nostro cinema. Ma se Pasolini viene celebrato da sempre, Ennio Flaiano (Pescara, 1910-1972) ce lo siamo un po’ dimenticati, pur citando spesso i suoi fulminanti aforismi. Molto diversi tra loro, i due erano accomunati da uno sguardo severo sull’Italia. Se per Pasolini l’analisi del nostro paese, afflitto da uno sviluppo che non portava ad alcun progresso, era filtrata da furore ideologico e dalla certezza che la fine della civiltà contadina avesse portato all’involuzione sociale, per Flaiano il sarcasmo verso gli italiani, il loro trasformismo (basta rileggersi gli straordinari articoli per Risorgimento liberale del 1944) e la loro allegra cialtronaggine, risaliva alla guerra in Etiopia, cui aveva preso parte come sottufficiale e da cui nasce il suo unico, lucidissimo romanzo, Tempo di uccidere, poco realista e molto conradiano, scritto in tre mesi su incoraggiamento di Longanesi e vincitore del primo premio Strega nel 1947.

Un autore postumo
Nei decenni seguenti Flaiano ha scritto alcuni racconti, come il dittico che compone Una e una notte o quelli inclusi nella raccolta Le ombre bianche, ma la sua scrittura resta in gran parte quella diaristica e frammentaria, da «zibaldone», che giustamente Anna Longoni ha definito «narrazione interrotta». Nel Diario degli errori, a un fantomatico intervistatore Flaiano spiega: «Caro Signore, io non ho una vocazione narrativa. Scrivo, che è una cosa molto diversa».

Flaiano è un autore postumo: ha pubblicato solo 6 libri in vita, mentre dopo la sua morte ne sono usciti circa una trentina. Ma narratore lo è stato soprattutto per il cinema, dal momento che il suo nome compare in una settantina di film, cui ha preso parte dagli anni ’40 fino ai primi anni ’70, in veste di soggettista e/o sceneggiatore per autori quali Pagliero, Antionioni, Fellini, Lattuada, Soldati, Polidoro, Emmer, Blasetti, Zampa, Risi, Monicelli e altri. Flaiano fantasticava di metter su una sorta di officina per riparare un copione zoppicante o dove vendere qualche soggetto d’occasione. Lo scrittore pescarese per tutta la vita ha tuttavia intrattenuto un rapporto di odio/amore con il cinema, medium che gli ha dato modo di campare – e i soldi per lui, padre di una figlia gravemente disabile, erano importanti – pur espropriandolo della sua autorialità, tanto che – osserva sempre Longoni – tenne sempre ben distinte scrittura letteraria e cinematografica (considerata «di servizio»). Come scrive Fabrizio Natalini – autore dell’esaustivo Flaiano una vita nel cinema – «La varietà della sua opera, per molti versi impopolare e non rispondente ai canoni delle classificazioni letterarie, la mancata unificazione dei suoi archivi e la tendenza della critica italiana a confrontarsi solo con alcuni aspetti della sua attività, escludendone altri, hanno fatto sì che, all’ampia fortuna editoriale, non si sia accompagnata a una puntuale ricostruzione dell’intero percorso artistico e culturale di Ennio Flaiano».

Il sodalizio con Fellini
Il regista al quale Flaiano è stato più legato contribuendo a costruirne l’immaginario è Federico Fellini. Il suo apporto fu centrale per I vitelloni, mentre per La strada, come rivela lui stesso, il suo ruolo fu di fare «l’avvocato del diavolo» intervenendo sul soggetto già elaborato da Pinelli e Fellini. La protagonista de Le notti di Cabiria, invece, è il frutto di una conversazione con una prostituta di Villa Borghese avvenuta molti anni prima, ma lo scrittore è ben consapevole che il copione per Fellini è solo un pretesto e che il film oltrepassa la scrittura, dichiarando a proposito del risultato finale: «Sono contento di non avere una copia della sceneggiatura, perché non c’è niente di più triste che rileggere una buona sceneggiatura, dopo che se n’è visto l’ottimo film». Flaiano, come molti letterati italiani (pensiamo a Moravia) aveva una conoscenza del cinema maturata dopo anni di critica cinematografica: dal 1939 al 1951 aveva scritto circa 300 recensioni per riviste come Oggi, Cine Illustrato e, soprattutto, Il Mondo, il settimanale di Pannunzio di cui divenne redattore capo. Si arriva così al paradosso dell’autorecensione di Luci del varietà, film d’esordio di Fellini (cui aveva collaborato come sceneggiatore), del quale – con una formidabile capacità di distanziamento e obiettività – sottolinea alcuni difetti: «Nella seconda parte il racconto va in cerca di pretesti abbastanza frivoli per ritardare la conclusione, che è già decisa», aggiungendo una lapidaria e illuminante definizione: «Più che un film satirico se ne ricava un antiromanzo».

Con La dolce vita Flaiano e Fellini raggiungono il culmine della simbiosi creativa: il film suscita scandalo e diventa un caso sociologico e cinematografico dell’Italia che entra nella stagione del boom e vede una decisa svolta nei costumi. In 8 e mezzo, ancora una volta si avverte forte l’apporto di Flaiano, ma il sodalizio tra i due si interrompe per uno sgarbo: aver fatto viaggiare lo scrittore in economica sull’aereo per Los Angeles in occasione dell’Oscar. Il vaso era colmo da tempo: Flaiano non sopportava di essere oscurato dalla figura ingombrante del regista riminese, convincendosi di aver sprecato anni della sua vita dietro a un’attività poco gratificante. Al suo amico Carlo Mazzarella, che in un’intervista gli chiese se Fellini per lui fosse un artista, rispose: «Lo è senz’altro ma la sua arte, che Pasolini definisce neo-decadente, ha bisogno di simboli, e per non sbagliare deve mettere tartufi in ogni portata, arricchire di salse. Io, mangio in bianco». Nel 1970 si riappacificarono e ripresero a frequentarsi, ma non fecero in tempo a lavorare di nuovo insieme.

Sceneggiatore, affabulatore
Nel 1954 Flaiano dichiarava alla rivista Cinema Nuovo: «Davanti a un film cui ho partecipato non mi sento né emozionato né commosso né orgoglioso come gli operai dei cantieri quando viene varata una nave. Io so che la nave appartiene ormai al regista», coniando di questo mestiere forse la definizione più calzante: «Quello dello sceneggiatore non è una professione ma uno stato transitorio».

Come ha notato Gian Piero Brunetta in Attrazione fatale, libro sul rapporto tra i letterati e il cinema: «A Flaiano interessava immaginare la storia, individuarne la struttura, veder nascere i personaggi dall’affabulazione e dallo scambio di idee». Metodo di lavoro questo comune a quasi tutti gli sceneggiatori dell’epoca: i copioni erano frutto di scambi amichevoli, di condivisioni, ed è dunque sempre difficile distinguere il contributo del singolo. Suso Cecchi d’Amico rivelava vent’anni fa: «Ho fatto centinaia di riunioni di sceneggiatura con Flaiano, a partire da La notte porta consiglio del 1947, ma di pagine scritte da lui ne ho viste poche». Ma è poi così importante? Quello che oggi si definisce brainstorming era un modo di vivere e perdere tempo, seppure in maniera costruttiva. La stessa Suso Cecchi ha affermato altrove: «Si divertiva sempre a parlare con tutti, la sua era una profonda curiosità umana… e non ha alcuna importanza se non scrivesse poi tanto in fase di sceneggiatura, essendo soprattutto un eccellente interlocutore». Secondo Brunello Rondi, anche lui compagno di sceneggiatura, Flaiano non si limitava solo a inventare frammenti di battute, ma era anche un sapiente costruttore dello script. Non dimentichiamo che le dinamiche che si creano durante una riunione di sceneggiatura hanno ispirato la pièce di Flaiano Conversazione continuamente interrotta.

Via Montecristo
Certo, a uno con la fama di essere pigro, il cinema imponeva scadenze insopportabili, che sottraevano tempo sia alla scrittura letteraria, sia all’esistenza. Il fatto che Flaiano abitasse nel quartiere di Montesacro, per la precisione in via Montecristo n. 6 – zona allora considerata periferica, certo non frequentata dai suoi amici intellettuali e cineasti – è indicativo del fatto che Flaiano amava mescolarsi tra le persone comuni, forse per la necessità di rappresentare la varia umanità in «presa diretta» nei film e nei libri che scriveva. Il ricordo di un suo vicino di casa, Francesco Biricolti, ce lo restituisce come uomo affabile, che partecipava alla vita del palazzo, tanto da averne disegnato l’androne e il portone (memore dei suoi studi da architetto) e proponendo perfino che i condomini cucinassero a turno invitando gli altri a pranzo. Nonostante sia stato a lungo un mondano e frequentatore di caffè – tra Piazza del Popolo/via del Corso (Aragno, Greco, Rosati) e via Veneto – ecco affiorare un altro Flaiano che amava il microcosmo protettivo costituito dallo studio al pianterreno e dall’abitazione al secondo piano in cui viveva con la moglie Rosetta (matematica che aveva fatto parte del gruppo di Via Panisperna) e la figlia Lelè. Finché – poco tempo prima di morire – non si trasferì in un anonimo residence a via Isonzo, mentre oggi è sepolto nel cimitero di Maccarese, poco lontano da quella Fregene dove aveva la sua seconda casa e dove sono nati tanti copioni.

Per comprendere l’immaginario di Flaiano – incluso quello filmico – è indispensabile riflettere sulle intuizioni, a volte geniali, alla base di articoli, pensieri, appunti, aforismi, racconti brevi. Come non leggere in Recupero possibile (incluso nel volume Le ombre bianche) un’anticipazione di A Clocwork Orange di Burgess da cui Kubrick avrebbe poi tratto il suo celebre film, oppure nell’inizio di Altre ombre sparse (che troviamo nello stesso volume) un’idea che Ferreri traduce in una sequenza de Il seme dell’uomo. Flaiano non è stato solo testimone del proprio tempo, ma è diventato – come Pasolini – profetico, immaginando il baratro del consumismo e delle mode in cui saremo finiti. Ma senza angoscia, con quella «grave leggerezza» di cui era capace, dove il comico si mescola al surreale, il realismo al paradosso, consegnandoci film memorabili e soggetti mai realizzati (alcuni editi in un raro volume edito da Frassinelli), tra cui la riduzione dalla Recherche proustiana.

Da Melampo a Oceano Canada
Un capitolo a parte, in questo senso, è costituito da Melampo, soggetto in parte autobiografico (frutto delle trasferte statunitensi e di una relazione con una donna), che avrebbe voluto dirigere lui stesso, sostenuto in un primo tempo da Mastroianni e dalla Deneuve. Il film invece fu affidato a Ferreri da Carlo Ponti – che lo aveva opzionato – con il titolo La cagna. Dello script originale esiste una sceneggiatura (pubblicata da Einaudi) e un racconto lungo (incluso ne Il gioco e il massacro). «Non faccio la satira di nessuna società, non mi importa. Quindi, niente esagerazioni nelle persone, abiti, modi, etc. Tener lontano il fellinismo delle maschere, i fiori sfocati in primo piano mentre i personaggi sono in secondo piano, la pioggia che deforma le immagini attraverso i vetri, tutto il piccolo bagaglio degli zoom, le sorprese in panoramica, insomma la cattiva fotografia», questo scrive tra le altre cose Flaiano nelle note alla sceneggiatura, prendendo le distanze tanto da Fellini quanto da Antonioni («i fiori sfocati in primo piano» sono un riferimento a Il deserto rosso), per cui scrisse, insieme a Tonino Guerra, La notte: la battuta all’inizio di questo film sulle cliniche che in futuro sembreranno sempre di più night club, «perché la gente vuole divertirsi fino all’ultimo», è flaianesca.

«Derubato» del suo Melampo e, quindi, privato della possibilità di debuttare nella regia, Flaiano trova rifugio nella televisione, realizzando per la RAI insieme al regista Andrea Andermann il reportage Oceano Canada: cinque puntate mandate in onda all’inizio del 1973, quando Flaiano era già morto in seguito a un secondo attacco di cuore. In Canada Flaiano c’era stato già nel 1965 e, quando tra luglio e settembre del 1971 si reca di nuovo per girare Oceano Canada, vi ritrova luoghi e persone. A quanto ricorda Franco Lecca – che di quel film fu l’operatore alla macchina – Flaiano, sempre affabile con tutti, venne sul set solo 5 o 6 volte, quindi in molte sequenze a intervistare le persone era il solo Andermann (mentre al missaggio fu aggiunta la voce fuori campo dello scrittore). Insomma Flaiano pianificò con il regista tutte le puntate, ma non fu sempre presente: lo vediamo senz’altro a Montreal, nell’incontro con la famiglia di mormoni ad Alberta, nel finale davanti alle cascate del Niagara, ma per esempio non nella terza puntata ai confini con il circolo polare artico dove si svolge l’incontro con la bambina inuit, uno dei momenti più commoventi di tutto Oceano Canada.

Dopo aver molto girato per il mondo – nonostante l’indolenza e l’indole stanziale – fu quello l’ultimo grande viaggio di Flaiano, il tentativo di comprendere e raccontare un vasto paese come il Canada, realizzando un esempio di grande televisione che resta negli annali.

Contro il pubblico
Anche dopo la morte, Flaiano non è stato fortunato col cinema: la trasposizione di Tempo di uccidere (che avrebbero voluto portare sullo schermo in periodi diversi Dassin, Pagliero e Rosi) fatta da Giuliano Montaldo nel 1989 è poco riuscita; inoltre, non tiene conto del trattamento che Flaiano stesso aveva scritto nel 1952. Le opere di questo grande scrittore, da quelle drammaturgiche a quelle filmiche, dalla cronache giornalistiche agli epigrammi, sono sempre attraversate da uno spirito disincantato, da un tocco ironico e leggero, da un modo di vedere il mondo che traspare da un dialogo, da una situazione, da un’ambientazione, da un personaggio, da un’atmosfera. In Diario degli errori ha affermato: «Il cinema è un’industria, o almeno tutti vorrebbero che lo fosse, dimenticando che le poche opere belle del cinema italiano, quelle che hanno fatto parlare dell’esistenza di un cinema italiano, sono state fatte contro l’industria, contro i produttori, e soprattutto contro il pubblico». Ecco, Flaiano era uno sceneggiatore poco incline al compromesso, che odiava le narrazioni prevedibili, i luoghi comuni, tentando di allontanarsi il più possibile dai canoni sia della commedia sia del realismo, con la consapevolezza che, nonostante «tutti vedono le cose del mondo meglio del cinema il vantaggio del cinema è che fa vedere ancora le cose del mondo».

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