Macchina narrativa, «romanzo scritto da un altro romanzo», biografia finzionale, autobiofiction : le definizioni vanno strette a Il destino Rimbaud scritto da Loris Caruso – sociologo all’Università di Bergamo – e pubblicato non a caso da Oèdipus edizioni (pp. 328, euro 18), nate a Nocera Inferiore (Salerno) «per farsi testimone dei percorsi nuovi e, non di rado, sperimentali sui quali si sono incamminati nel nostro paese i linguaggi della poesia e narrativi».

Si può dire che cosa non è questo libro, non è una biografia del poeta francese pur contenendo la sua vicenda, anzi pur consentendogli di raccontarsi in prima persona con un’abile interpolazione dei suoi scritti e dei suoi versi. Non è un trattato storico-politico pur tradendo a volte la professionalità dell’autore che altrimenti si occupa di movimenti sociali, teoria politica e conflitti di lavoro come ben sanno i lettori di questo giornale.

L’AUTOBIOGRAFIA inventata sfruttando lettere e opere del poeta maledetto è solo il nucleo di un dispiegamento – Caruso ci ha lavorato per alcuni anni – che si serve di altre voci narranti e trovate finzionali all’altezza delle molteplici possibilità fornite dallo stesso Rimbaud, artista totale, paradigmatico di una modernità senza direzione con quella traiettoria esistenziale velocissima che lo sorprende giovanissimo sulle barricate della Comune, o almeno, tra gli esuli comunardi a Bruxelles o a Londra, e lo vede morire pochi anni dopo, mercante d’armi in Africa. Tra queste polarità, Rimbaud in soli quattro anni riscrive la storia della poesia, vivendo e osservandosi fino allo spaesamento, finché la famosa revolverata di Verlaine lo ferisce però ammazza solo il poeta e quello che resta sparisce in esili sempre più lunghi e ritorni sempre più fugaci, senza più scrivere una riga che non sia funzionale agli scopi pratici del mercante.

A questo punto Arthur Rimbaud non ha che diciannove anni. Non c’è rischio di spoiler, nessuna riga rimbaudiana rischia di essere spiegata una volta per tutte e i posteri si interrogano ancora sui numerosi enigmi incastonati tra i versi o solo impigliati casualmente. Tanto più la sofisticata macchina narrativa ibrida di Caruso che innesta un passato e un futuro mitici, ma disponendoli come un labirinto, su una figura che diventa un mito, forse suo malgrado, quando è ancora vivo, lontano però, nelle zone bianche delle mappe, quelle non esplorate, non ancora conquistate.

DOPO AVER RIBALTATO il senso delle parole «fino allo sputo», Rimbaud si ridefinisce per sottrazione, sparendo dai radar. Mentre in Francia i suoi libri conquistano una popolarità che durerà nei secoli tra le giovani generazioni e tra i critici letterari, lui scavalca le Alpi a piedi, si imbarca, si arruola, diserta, compra e vende, compie l’immaginazione delle tante vite che aveva messo in versi e poi in prosa poetica ma ormai è sotto scacco visto che la Rivoluzione è stata sconfitta e la scrittura non ha il potere costituente che lui ha tentato di rivelare.

Resta quel marasma universale dentro cui il poeta è nato ma a questo punto muta il progetto di sé, diventa un altro: Abdo Rinbo, nome con cui fu registrato dall’amministrazione egiziana che allora governava l’Etiopia e che Caruso affibbia a un alter-ego che vive nel XXI secolo ed è costretto a ripercorrere la vicenda di Rimbaud per ritrovare la propria memoria. C’entrano la poetica della veggenza di AR, le prefigurazioni del simbolismo e le capacità ricombinatorie del digitale. Come abbiamo già detto: questa non è una biografia.