Sembra alludere ai primordi del punk, il «domani che non giunge mai» dei Rancid, a quel No Future dei Sex Pistols oppure al passato esemplare della band californiana, quello dell’album omonimo d’esordio e ai capolavori come Let’s go, And out come the Wolves e Life Won’t Wait. Ascoltando la prima canzone, quella che da il titolo a questo nuovo lavoro atteso per sei anni, si potrebbe pensare che la primeva, unica energia dei Rancid sia ripristinata ma non sarà così, scopriremo mentre trascorrono le sedici canzoni per ventinove minuti di Tomorrow Never Comes, forse l’album meno interessante e coinvolgente della band, una delusione dopo il notevole Trouble Maker e opera persino inferiore, nella sua monotonia cromatica, stilistica e melodica, allo sfortunato Honor is All We Know che uscì dopo l’ispirato, potentissimo Let The Dominoes Fall.
Tomorrow Never Comes non è un brutto album punk-rock, ma si ascolta come una raccolta di b-sides, laddove qualche rara canzone emerge tra le altre, tutte senza dubbio eseguite da grandi mestieranti ma senza sperimentazioni, dalla rabbia quasi controllata, simili una all’altra nella forma spesso troppo contenuta che talvolta «censura» in una rapida chiusura pezzi che invece avrebbero necessitato di un’evoluzione o di una variazione, come Mud, Blood & Gold.on ci sono quelle derive verso lo Ska e il Reggae che hanno modificato in passato la timbrica e la ritmica delle canzoni con esiti sorprendenti e spesso i ritornelli hanno il fascino di una filastrocca ripetuta fino al tedio durante i quali nemmeno l’intervento delle tre voci risuona interessante

QUESTA SINTESI estrema funziona invece per il minuto scarso di Don’t Make me do it, una delle canzoni più travolgenti malgrado la sua brevità. Non ci sono quelle derive verso lo Ska e il Reggae che hanno modificato in passato la timbrica e la ritmica delle canzoni con esiti sorprendenti e spesso i ritornelli hanno il fascino di una filastrocca ripetuta fino al tedio durante i quali nemmeno l’intervento delle tre voci risuona interessante, una cantilena troppo reiterata che si impone sulle strofe e gli assolo, negando la presenza di un bridge per alimentare il climax che i testi, invece sempre puntuali nelle loro argomentazioni contro gli orrori del presente, esigerebbero.
Trascorsa la mezz’ora scarsa di Tomorrow Never Comes permane il desiderio di altra musica, di altre canzoni, e riascoltarlo da capo non appaga quest’esigenza, lasciandoci con una vaga nostalgia, depotenziati anziché esaltati dalla rara forza punk dimostrata in passato dai Rancid, dal loro estro, dalla loro «rancida» negazione di un manierismo che qui invece assorda.