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Energia e disperazione in un occhio bruciante: Nan Goldin

Energia e disperazione in un occhio bruciante: Nan GoldinNan Goldin, «Risé and Monty Kissing», New York City 1988, da «The Ballad of Sexual Dependency»

A Milano, Triennale, «The Ballad of Sexual Dependency» di Nan Goldin L’underground degli anni ottanta americani come in una proiezione casalinga di diapositive

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 15 ottobre 2017

Nan Goldin non si difende dal «troppo» della vita, non distoglie mai lo sguardo davanti al dolore o alla morte, non socchiude gli occhi, non cerca di non vedere: lo dimostra l’emozionante videoinstallazione The Ballad of Sexual Dependency, a cura di Fançois Hébel e promossa dal Museo di Fotografia Contemporanea (si può vedere alla Triennale di Milano fino al 26 novembre).
Nan Goldin non ha schermi: è dentro, è immersa nella vita. Nan Goldin non «abita la distanza» (per usare un termine del filosofo Pier Aldo Rovatti) ma anzi la prossimità, con tutti i rischi che ciò comporta. Lei – che con questa opera, iniziata nel 1979 e ampliata negli anni, ha segnato la storia della fotografia contemporanea – non usa la macchina fotografica come uno strumento per vedere il mondo, rimanendo nascosta e difesa dall’apparecchio (cosa che, a volte, può anche permettere di fotografare l’inguardabile senza soccombere, come è accaduto a Margaret Bourke-White davanti agli orrori di Buchenwald). La usa invece per penetrare nelle situazioni, per registrare la vita mentre si fa, tra amori e droghe, sesso e solitudini, risate e smarrimenti, tra amici carichi di energia e che poi muoiono di Aids (difficile dimenticare i sorrisi vitali della sua amica attrice e scrittrice Cookie Mueller, e in seguito l’immagine in cui è ritratta in una bara) e altri amici che si costruiscono un futuro circondati da figli.
«Fare una fotografia è un modo di toccare qualcuno, è una carezza. È accettazione, un desiderio di cogliere la verità senza cercare di darne una versione personale», aveva detto anni fa proprio parlando di questo suo lavoro, finalmente presentato in Italia nella sua interezza, dopo la recente tappa al Museum of Modern Art di New York. Un lavoro composto da un fiume pulsante di 700 fotografie a colori montate in sequenza filmica (circa 45 minuti di durata) che ci trascina dentro la sua storia e quella della sua tribù di amici, da lei chiamati «la mia famiglia». Accompagnate da un flusso di canzoni d’amore (da Maria Callas ai Velvet Underground) scorrono nell’oscurità immagini di letti sfatti e stanze squallide, opprimenti; di notti perdute e baldorie; di momenti intimi e di sesso dove pare quasi di sentire l’odore penetrante dei corpi avvinghiati.
E poi tanti sguardi: teneri, smarriti, crudeli, spavaldi. Sguardi che ci trapassano, come quello del suo famoso autoritratto One month after being battered. Il suo compagno Brian l’aveva picchiata tanto da farle quasi perdere un occhio e lei coraggiosamente si fotografa per non dimenticare, per dirsi e dirci che non deve più accadere a nessuna donna, ma che è accaduto. E che è successo proprio a lei, e la fotografia è lì a testimoniarlo. «Questo è lo slideshow della mia vita», ha detto l’artista statunitense, ma è anche la storia tenera e sincera di una generazione, quella degli anni ottanta, avida di vita e disperata, uccisa dall’Aids e dalle droghe, capace di amare e di sognare l’impossibile.
Le immagini essenziali e dirette di Nan Goldin passano continuamente dall’io al tu, al noi. Sono un girotondo immersivo che toglie il fiato, dove il racconto autobiografico gioca tra il dentro e il fuori, si intreccia, mobile e pulsante, con quello della vita intima di tutta la sua «tribù» e viceversa. Un simile racconto si espande dal dato autobiografico per divenire una narrazione potente che affronta a viso aperto, senza filtri, la nostra condizione di esseri umani e la nostra capacità di sopravvivenza. Lontane da ogni estetismo di maniera, da aspetti voyeuristici o narcisistici, le sue immagini trovano la loro ragione d’essere nel bisogno sincero di ricordare, di non dimenticare, di testimoniare. «È la ricerca della realtà che per me è essenziale. La realtà è già sufficientemente misteriosa», ha scritto Nan Goldin nel 2009, in occasione della grande mostra che le aveva dedicato lo stesso Hébel al festival Les Recontres d’Arles.
E, in sintonia con quest’affermazione, in anni in cui la fotografia d’autore era soprattutto in bianco e nero, lei sceglie di fotografare a colori perché, come aveva detto Luigi Ghirri, «il mondo reale non è in bianco e nero». Lei fotografa sempre là dove trova uno sguardo o una situazione che la colpiscono, non rinuncia neanche quando è quasi buio e sa che l’immagine scattata sarà inevitabilmente mossa, sgranata e tecnicamente mal riuscita. Il suo non è però un anti-stile, perché non si oppone a nessuno stile: sente semplicemente la necessità di fotografare senza strumenti (come il cavalletto) che possano creare una barriera tra lei e la realtà. Nan Goldin, diversamente da Ghirri, non usa la pellicola a colori, ma le diapositive. In origine, quando si aggirava tra un locale e l’altro per mostrare il suo lavoro (è stata anche a Milano, al Plastic, nel lontano 1986), lo presentava infatti come una classica proiezione di diapositive, simile a quelle – inceppamenti compresi – con cui ognuno intratteneva i propri amici al rientro da un viaggio. Usava cioè una modalità di presentazione narrativa, rivoluzionaria, ma tipica dei rapporti tra amici e vicina all’esperienza di tutti. Ed è questa sua sincerità e necessità comunicativa a rendere imperdibile la mostra milanese.

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