Empatia con lo stregone
Africa La medicina tradizionale africana mette in relazione malattia dell’individuo e malattia della società, in una relazione complessa e personalizzata. Per la cura lo «specialista» non basta, c'è bisogno di una volontà collettiva, sociale, politica. Una prospettiva di cui anche l'Occidente avrebbe un grande bisogno
Africa La medicina tradizionale africana mette in relazione malattia dell’individuo e malattia della società, in una relazione complessa e personalizzata. Per la cura lo «specialista» non basta, c'è bisogno di una volontà collettiva, sociale, politica. Una prospettiva di cui anche l'Occidente avrebbe un grande bisogno
Tra i tanti aspetti del bioliberismo, del liberismo cioè che gestisce la vita o la morte a seconda della plusvalenza che se può ricavare, quello della salute è tra i più esemplificativi per rendere ragione delle differenze che esistono tra questa concezione del mondo e quella di altre culture e civilizzazioni dette «tradizionali», oggi certamente più sensibili nello sviluppare una visione che genera un futuro possibile e percorribile per tutti. Tradizione significa un insieme coerente di pratiche che investono tutte le sfere essenziali della vita: nascita e morte, riproduzione e produzione, salute e malattia, socialità e spiritualità. Questo ci dice già che siamo di fronte ad una visione olistica del microcosmo umano e che, al tempo stesso, la coerenza tra tutti gli aspetti di una certa tradizione fanno sì che essa sia estremamente fragile, poiché se uno solo di queste relazioni salta, per vari motivi – come avviene ad esempio nei processi di urbanizzazione forzata nelle grandi megalopoli africane e non solo – il corpus tradizionale rischia di degenerare in fenomeni totalmente scollegati dal loro significato originario, ad esempio la stregoneria o i sacrifici umani.
Medici contro stregoni è dunque una delle tante polarità che possiamo utilizzare per riflettere sul contrasto tra la forma occidentale del pensiero, scisso tra mente e corpo, uomo e natura, versus una visione olistica della relazione tra uomo, patologia ed ambiente, che invece inserisce la malattia negli avvenimenti «di senso» che mutano la nostra visione delle cose ed il mondo in cui ne facciamo esperienza, creando forme di pathos condiviso, socializzante, che non lascia il soggetto solo nelle mani delle compatibilità economiche dei «biocrati» che le amministrano.
Ma lasciamo la critica dei «biocrati» al grande Ivan Illich di Nemesi medica, e volgiamo invece lo sguardo ad una medicina che ci consente di scrutare, di tessere le file del nostro rapporto trasformativo tra noi ed il mondo, anche attraverso una diversa concezione del dolore e della malattia. Per farlo dobbiamo assumere un punto di vista che ancora oggi permane all’interno di diverse comunità umane, seppure messe ai margini della storia scritta dal potere gerarchico. Un pensiero di «maschera e vertigine» come direbbe Caillois, un pensiero sul patologico e sulla malattia, quello cosiddetto «tradizionale» o «indigeno», che nel pensiero occidentale ha comunque autorevoli sostenitori e altrettanto autorevoli detrattori.
Prima di tutto, per capire le medicine tradizionali, dobbiamo ridefinire il normale e il patologico partendo da Georges Canguilhem, maestro di Foucault. La sua tesi è che non esistono queste due polarità come termini assoluti, oggettivi, ma che è la stessa malattia, la patologia, che definisce la norma e la normalizza. Ogni patologia è personale e dunque mal si acconcia ad una definizione oggettiva. La definizione è allora normalizzatrice di per sé, e impedisce la possibilità stessa del paziente di soggettivare la sua patologia assumendola come parte del suo processo vitale, incluso quello che Canguilhem chiama «lo scacco finale della morte».
La conclusione è che la normalità viene trasformata, dall’oggettivazione scientifica governata dal liberismo, in normalizzazione, e che un discorso onesto sulla scienza deve riconoscere che essa, o meglio chi la promuove e la «ordina», muove appunto da una esigenza di controllo; queste intuizioni saranno poi pienamente sviluppate e arricchite da Foucault.
Ecco la necessità di tornare a un altro punto di vista, a questo approccio «tradizionale» o «indigeno» alla patologia, nel quale è racchiusa tutta l’idea non solo che l’uomo vive in relazione profonda con il suo ambiente, ma che ne rappresenti un microcosmo che si manifesta anche con i segni e i sintomi attraverso i quali la malattia si palesa. La malattia è, in queste culture, una vera e propria epifania delle forze archetipiche che governano il cosmo e dunque anche la vita degli uomini.
Il vantaggio dell’approccio tradizionale è proprio nel mettere in relazione corpo specifico e corpo sociale, malattia dell’individuo e malattia della società, in una relazione complessa, personalizzata, che ha bisogno, per essere curata, dell’intervento non solo dello «specialista» ma di una volontà collettiva, sociale, politica. Come vedremo è tutto il gruppo attorno al malato che deve farsi carico della patologia, che rappresenta solo un segnale di disagio che non riguarda il malato se non come ambasciatore di forze altre, che parlano attraverso di lui.
L’Occidente, che ha assolutizzato la sofferenza rendendola personalissima ma in modo escludente, per trattarla poi in modo standardizzato, creando così una doppia esclusione – una di quelle «duplicazioni» del modello liberista di cui parla Foucault per le prigioni o le fabbriche – avrebbe un gran bisogno di questa prospettiva.
Non si vuole dire con questo che le conquiste della nostra scienza non sono valide, che gli antibiotici non servono a nulla, no di certo, ma che è necessario instaurare un dialogo in grado di ricollegare due polarità che non sono opposte ma rappresentano una il complemento dell’altra.
Non medici contro stregoni dunque, ma medici e stregoni, non la verità scientifica, oggettiva e riproducibile contro una visione soggettiva personalizzata ed empirica dell’essere umano, ma un empirismo sostenuto dalla accettazione del patologico come veicolo di conoscenza personale e sociale. In questo senso l’Africa e i suoi guaritori tradizionali, gli Nganga, rappresenta l’assoluto opposto della medicina occidentale e quindi il suo doppio perfetto. Per questo cercare di capire realmente come stanno le cose, introdurre anche nel rapporto tra questi diversi approcci curativi una possibilità di dialogo tra eguali, rappresenta una sfida non solo culturale ma scientifica di grandissima portata.
La grande lezione delle medicine tradizionali africane è che tutta una società può trarre beneficio da un episodio patologico. In questo senso il discorso si fa politico, e quindi lo stabilire una relazione vera e concreta tra queste due sponde della ars medendi è di primaria importanza per chi è interessato ad elaborare modelli di sviluppo alternativi, di cura del sociale attraverso la cura degli individui e viceversa.
Per le medicine tradizionali africane l’idea centrale è quella di ricongiungere la malattia e i suoi sintomi al malato, che diventa così una sorta di testimone, un tramite delle relazioni profonde tra il mondo visibile e quello invisibile, tra noi e la «trama nascosta che è più forte di quella manifesta» come dice Eraclito di Efeso. Non solo, la «tradizione» riconosce che l’uomo è natura e cultura, e dunque tra i patogeni ci sono anche le violazioni dell’ordine sociale che rientra così tra i presupposti della cura. Indagare allora non il «cosa» ma anche il «chi è» che ha scatenato queste forze e come possano essere portate a riconciliarsi con il nostro mondo, è compito della medicina tradizionale. La diagnosi diventa così conoscenza profonda non solo del malato e della sua storia personale, ma anche del contesto sociale e ambientale nel quale egli vive, e delle trasformazioni necessarie per ricomporre la frattura.
La cura è allora spesso affidata a tutto il nucleo di provenienza, famiglia, clan, tribù, che si deve, nel caso, impegnare a un comportamento sociale più consono. Quello che in Occidente nasce, o meglio viene recuperato dai tempi classici, con la psicologia del profondo, nell’Asia sciamanica, nell’Africa degli Nganga e nell’America latina degli stregoni-curanderos, persiste da sempre. Assistiamo quindi a un insieme di atti terapeutici complessi e densi di significati multipli, nei quali il farmaco tradizionale è solo piccola parte, spesso neppure somministrato o usato come placebo.
Si instaura così una empatia tra stregone, malato, malattia e gruppo sociale di provenienza. Questa empatia consente di risalire lungo la catena di errori che hanno generato la malattia: trovata così la causa, l’eziologia sociale o psichica, della quale il vettore è solo l’agente ultimo, si pone il rimedio. L’atto curativo, in questo modo, non solo ripara, ma rende palese un punto di vista, ritesse la trama tra il malato ed il suo ambiente, tra l’umanità e le altre forme di vita.
Tacciare questa visione di «primitiva» oppure ascientifica, o semplicemente vederne gli aspetti degenerativi contemporanei, non fa che rafforzarne la validità, a fronte di una epoca che a furia di affermare la propria podestà «illuminista» sul mondo sta pagando con la depressione di massa, il fanatismo religioso, le catastrofi ambientali e la fame il suo rimosso tributo all’ordine delle cose.
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