Una stanzetta per i consulti medici all’interno di un «Centre de rétention administrative» a Marsiglia, uno di quei luoghi in cui possono essere rinchiuse le persone straniere in situazioni ritenute irregolari, persone che lo Stato francese cerca di espellere.
La telecamera rimarrà dentro quelle mura, che sono gangli rimossi degli ingranaggi più in ombra degli Stati, per tutta la durata del documentario. (O quasi: nota essenziale).

Perché questo, tra le infinite cose, può fare il cinema, aprire fenditure di visione su vissuti altrimenti inaccessibili e occultati. («I centri di detenzione sono diventati luoghi di violazione sistematica dei diritti e di grave oltraggio alla dignità umana», così Fanélie Carrey – Conte, segretaria generale della ong La Cimade, a Le Monde lo scorso marzo 2023, ma questa materia sappiamo riguardare fortemente anche l’Italia).

Così I don’t know where you’ll be tomorrow di Emmanuel Roy può essere un cardine nel Concorso Internazionale del Festival dei Popoli (dal 4 al 12 novembre a Firenze), con un’edizione – la 64esima, diretta da Alessandro Stellino – che fin dal manifesto guarda al «corpo in rivolta» di Reich, Lowen e Dusan Makavejev ( con WR – Misteries of the organism – 1971 – che ha inaugurato).

Perché di corpi si tratta – in modo delicatissimo e abissale. Ma anche di parole e di storie, negate e sommerse. Sebbene – per ovvi motivi di riservatezza – non dei volti di coloro che si rivolgono al presidio medico del centro.
Di conseguenza, una volta avuto il consenso alle riprese, l’assetto registico di Roy fa sì che ciò che è dato di vedere sia la persona di spalle – con un’attitudine molto prossima al corpo, appunto, e quasi alla nuca – mentre frontalmente – senza mai effettuare un controcampo – lo scenario visivo che ci si pone davanti è costituito dalla dottoressa che presta servizio nella sezione: il viso in parte celato dalla mascherina, ma lì con gli occhi e con la sua professionalità e umanità.
È in primis grazie a questa capacità di ascolto e a un’attenzione radicale mai invasiva della regia (lo stesso Roy cura camera e suono), che quella stanzetta diventa un alveo di ricezione profonda di ciò che non è forse mai stato dicibile, né confidato né accolto.

I racconti personali delle peripezie atroci prima di giungere in Francia dalle più disparate provenienze, la scelta dello sciopero della fame da parte di alcuni, i gesti autolesionistici come ingoiare un accendino, i farmaci che rifiutano di prendere, e quelli che chiedono insistentemente per lenire l’angoscia, la denuncia delle violenze subite da poliziotti in contesti non testimoniati da alcuna videocamera…

Perché continuano a riportarmi dentro? (Dal 2018 la detenzione può arrivare fino a 90 giorni e ripetersi nel tempo, anche per anni). Mi dicono di aspettare. Aspettare cosa? Che il mio cervello sia distrutto? Ora so che non essere francese è un crimine. Perché ci fate soffrire così?

Di fronte a queste frasi, la dottoressa Mansour (Reem, ndr), chiede della salute e al contempo delle storie pregresse, della richiesta d’asilo, dell’arresto: tutti traumi che sono diventati ferite del corpo, buio della mente, ma anche un file di anamnesi da lei redatto che sarà vitale in caso di trasferimenti forzati in altri centri o Paesi.

Quindi, pur esprimendo vivamente il suo parere sui farmaci, dà ai pazienti la responsabilità finale della scelta, testimoniando come tutto il contesto renda impossibile star bene. «Ha totalmente ragione, ma non è mio potere farla uscire da qui, monsieur».

Origini palestinesi, passa dal francese all’arabo all’inglese, ascolta in silenzio, si toglie gli occhiali, e per un attimo la mascherina per mostrare come fare un respiro profondo, accoglie il pianto di un paziente, si commuove, ausculta il cuore e poggia l’altra mano sulla spalla dell’uomo, osserva la schiena torturata di un altro… Mentre ogni gesto di contatto fisico e emotivo si amplifica, diventa la luce di un’umanità residua e resistente.

Non sappiamo cosa succederà. Non so dove sarai domani, recita il titolo. Buona giornata e grazie, dicono andando via. Bon courage, li saluta lei.

Una consimile capacità di «stare–con» persone e luoghi segnati da vicende limite di annientamento dei diritti attraversa anche Toxicily di François-Xavier Destors e Alfonso Pinto, selezionato per il Concorso Italiano.
Augusta – in provincia di Siracusa – uno dei comuni dell’area della Sicilia orientale, che dal 1949 è stata costantemente violata dalla presenza ammorbante del Petrolchimico (con effetti segnalati da studi scientifici fin dagli anni ‘70), è il luogo d’indagine da cui gli autori si sono sentiti chiamati, tra notti illuminate da pachidermi di tubi fumi e metalli, capannoni ischeletriti e un mare che ricorda la bellezza splendente di un tempo ma che forse è solo una parvenza, un doloroso scherzo percettivo.

Tutto questo mentre i ragazzi del posto arrivano in spiaggia coi caschi al braccio, e gli abitanti, con le loro tragedie scritte sulla pelle e su quella dei propri cari, non possono immergersi se non avendo davanti le torri della raffineria, che spaccano il cielo avvelenato della Sicilia con lamine di fuoco. Se avessimo una partitura olfattiva come quelle di Gianikian e Ricci Lucchi, potremmo percepire anche gli odori…

Questi luoghi, dove pascolano le mucche quando un cartello lo vieta espressamente causa stratificazioni di rifiuti tossici, che inquietano chi vi si accosta anche per mangiare «un’innocua» ottima mandorla, sono il corpo oltraggiato del territorio che è stato ed è tutt’uno con i corpi di chi lo abita, fin dai più anziani, i primi a essere ingannati dal miraggio del lavoro e del petrolio – cui in modo mellifluo inneggia la voce di un filmato anni ‘50 – dal desiderio di emanciparsi da ataviche deprivazioni, dalla povertà del dopoguerra. Ma non riguarda un’unica generazione.

Così si fa avanti Chiara, che fin da piccola, si è scontrata, insieme alla madre, con gli effetti sulla sua salute di quel sistema ricattatorio (il cancro o la fame? scrive uno dei protagonisti del film nelle sue incursioni da writer), c’è chi ha combattuto una vita con Lega Ambiente; chi, come Nino Comito, resta il cantore più puro della bellezza passata pur non potendola più vedere con gli occhi, e forse proprio per questo; una figlia lotta per la memoria del padre che con la leucemia ha perso la vita e il credere nella fabbrica.

Poi, in chiesa, o al cimitero, attraverso la voce di don Palmiro Prisutto, risuonano i nomi dei morti, fino a vedere le foto dei bambini scomparsi (ed è giusto così), si parla delle malformazioni, si discute di quella che oggi è imperdonabile ignoranza, di omertà, dei legami tra mafia e politica, di andar via e di restare, di come sarebbe se tutti gli abitanti di Augusta Melilli Priolo e Siracusa si unissero…

E se, innanzi al muro delle multinazionali e alle loro sempre più perverse azioni per eludere la legge – citando Sofocle e una tragedia al Teatro Greco – si sente quanto è aspro il sapere quando è inutile, pure, in questo sconforto, c’è un senso caldo e ormai raro di comunità, che talvolta abita persone provate in modo indicibile. E che, oltre tutto questo, è seme.