Emma Dante nella terra dei Ciclopi
A teatro La regista palermitana torna anche in veste di attrice nel suo nuovo spettacolo «Io, Nessuno e Polifemo» che ha debuttato al teatro Olimpico di Vicenza
A teatro La regista palermitana torna anche in veste di attrice nel suo nuovo spettacolo «Io, Nessuno e Polifemo» che ha debuttato al teatro Olimpico di Vicenza
Lo spettacolo si intitola Io, Nessuno e Polifemo ma potrebbe anche intitolarsi La versione di Polifemo. Nella triade del titolo, è lui, Polifemo, il protagonista della «intervista impossibile» con cui Emma Dante si presenta al pubblico del teatro Olimpico di Vicenza, ad apertura dell’ormai tradizionale ciclo di «spettacoli classici» che ha per cornice la stupenda architettura palladiana, di cui quest’anno la regista palermitana ha assunto la direzione artistica. Ha preso a prestito la formula rimasta celebre con cui si misurarono per radio, quarant’anni or sono, le menti migliori di allora – metti Arbasino che intervistava Ludwig di Baviera interpretato da Carmelo Bene o Umberto Eco che interrogava l’Erostrato di Paolo Poli… Per farlo è tornata in scena in prima persona, memore dei suoi trascorsi d’attrice formata alla tradizionalissima Accademia nazionale d’arte drammatica.
C’è nessuno? chiede lei, salendo sul palcoscenico. N’ata vota? le risponde lui, innescando subito così una piccola gag. Outis, Nessuno, è infatti il nome con cui si era presentato a lui il suo nemico, colui che gli portò via la vista e le greggi, l’odiato Odisseo. Tirato fuori dal suo antro, cioè dalle pagine che ne hanno fissato l’immagine e la storia, il ciclope ripercorre la vicenda a modo suo, dal suo punto di vista si stava per dire, ma rischia di sembrare un gioco di parole un po’ facile. Sarà anche vecchio e depresso, ma la storia la ricorda e ci tiene a negare l’immagine di mostro che gli è stata attaccata addosso. Vabbè, sono antropofago, mi piacciono gli uomini. Crudi. Ho seguito il mio istinto, dice.
Se è vero che nel nome sta nascosto un presagio, Polifemo è colui «che parla molto». È insomma un chiacchierone, il figlio di Poseidone. Simula insofferenza per l’intrusa, una che si presenta dicendo di volergli fare qualche domanda – poi lei però precisa: io faccio teatro, non spettacoli. Ma si capisce che non vede l’ora di interrompere la propria millenaria solitudine. Ciò che immediatamente appare è che tanta loquacità è espressa in lingua napoletana. Non siete siciliano? finge di stupirsi lei. Io sono sempre stato dirimpetto ai Campi Flegrei, le risponde. Emma Dante ha collocato la terra dei ciclopi non in Sicilia, ai piedi dell’Etna, ma a nord di Napoli, fra Nisida e Posillipo, come vuole un’altra tradizione che pure ha le sue buone basi filologiche. Sempre di terra vulcanica si tratta (non lontana per altro dal luogo dove vivevano le sirene, altre «attrici non protagoniste» dell’odissea omerica). Terra di farsa nera e sguaiata.
E in napoletano parla anche Ulisse, con qualche motivo di sorpresa in più, quando evocato dalla storia compare lui pure sulla scena e subito viene quasi alle mani con l’altro. Lo provoca, senza di me non esisteresti. Canta e balla e fa capriole. Un guitto, si proclama. Contrappone il suo amore per ’e femmene al gusto dell’altro per gli uomini crudi. Ammette con soddisfazione di aver mentito e imbrogliato assai. Che altro dialetto dovrei parlare?
Gioca con gli stereotipi, Emma Dante. Anche quelli che riguardano il suo teatro. Di cui impartisce qui una sorta di lezione ai compagni in scena, e agli spettatori per interposta persona, come Amleto con i comici arrivati a Elsinore. Con ironia va fuori e dentro il testo, quello che si chiama metateatro. Resiste alla tentazione, se mai l’ha avuta, di rileggere la storia in chiave postcoloniale, com’è oggi alla moda. Interrogato, Polifemo risponde, ma le parole son quelle dettate da lei. Del resto sono tutti e tre vestiti nell’uguale maniera, abito scuro e camicia bianca.
Niente costumi o altro. Non c’è il rischio che possiamo prenderli davvero per dei personaggi. Ma quando dice della sua predilezione per una lingua «maleducata e selvaggia» quando parla degli attori con cui lavora (qui sono Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola) ci avviciniamo alla sostanza di quello che è dall’inizio il suo teatro. C’è un momento bellissimo nello spettacolo, come l’aprirsi di una crepa che ne mostra lo strato più interno, quando d’improvviso ci accorgiamo che il protagonista ha preso a parlare la lingua siciliana. Ma che minchia succede, ridatemi il mio dialetto, esclama dopo un attimo.
C’è però ancora da dar conto delle altre figure presenti sulla scena. Una polistrumentista che da un lato picchia sulle percussioni e le tastiere e canta anche canzoni che dicono «ammuri ammuri, malata sono io d’ammuri» e poi diventano urlo singhiozzo lamento. E tre figure danzanti, le prime anzi ad apparire sulla scena in una sorta di balletto meccanico e che poi intervengono più volte, introducendo come delle spezzature nell’andamento altrimenti troppo lineare dello spettacolo; quando non se ne restano semplicemente sedute, come inanimate, nel varco della porta centrale della scena che dà sull’illusionistica prospettiva della città rinascimentale, a tratti illuminata da bagliori rosseggianti. E ci sarà anche un loro momento solista più fluido, una danza volteggiante sotto lo svolgersi infinito di una tela che può certo riferirsi a quella tessuta dalla sposa che attende il ritorno dell’eroe, ma si apre volendo anche ad altre connessioni, come il filo svolto dalle tre Parche. Basta connettere, appunto.
Il teatro di Emma Dante, si diceva. Si è già capito forse, l’artista siciliana sembra essersi presa qui una pausa dal suo teatro, cioè da quegli elementi che lo hanno reso familiare allo spettatore – il quale potrebbe a buon diritto chiedere a sua volta: che succede, e rivolerlo indietro come lo conosce. Con quello sprofondare nell’album di famiglia di una cultura nostra che non è solo meridionale, quella lingua palermitana che non ha paura di contaminarsi, quel linguaggio dei corpi che dalla trilogia degli inizi arrivano alle emozionanti Sorelle Macaluso che ancora girano (mentre Io, Nessuno e Polifemo viaggia verso il teatro Franco Parenti di Milano e il Biondo di Palermo che lo produce).
Ma attraverso la crepa che si diceva si intravede il fondo tragico di cui da sempre Emma Dante cerca di cogliere un’eco segreta. Non siete pronta, fa decretare al suo Polifemo. Ma è la tragedia che sfugge, si nasconde sotto una maschera derisoria. Polifemo è da tempo passato alla cultura del cotto. E ora può offrirci una elaborata ricetta per la preparazione di «capretto caso e ova«. Ma sappiamo chi l’ha messa sulla carta. Lo spettacolo si intitola Io, Nessuno e Polifemo ma potrebbe anche intitolarsi La versione di Emma.
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