Orchidelirium. An Appetite for Abundance è il titolo della mostra di Kristina Norman (1979) e Bita Razavi (1983) al padiglione estone (ospitato all’interno di quello olandese) per la 59ma Biennale di Venezia del 2022. Assieme alla curatrice Corina L. Apostol, si concentrano sulla figura di Emilie Rosalie Saal (1871-1954), artista e viaggiatrice estone dimenticata persino in patria.

Dopo aver studiato arte a San Pietroburgo, si trasferisce a Java per un ventennio (1899-1920) assieme al marito Andres Saal, scrittore, fotografo, viaggiatore e soprattutto ufficiale di alto rango nelle Indie orientali olandesi (l’attuale Indonesia). Qui dirige il dipartimento di cartografia dell’esercito e disegna quelle mappe che, come noto, sono un modo di esercitare il potere su un territorio. E questo nonostante Andres simpatizzasse con l’indipendenza dell’Indonesia, paragonata ai paesi baltici in Europa. Nelle note a margine del suo diario fa a volte riferimento a sua moglie: è così che viene intercettata dalle artiste e dalla curatrice. In piena era colonialista, Emilie Saal realizza circa trecento dipinti e acquerelli sulla vegetazione tropicale, incluse un centinaio di orchidee rare.

Due mappature corrono parallele: quella del territorio di lui e quella di fiori e frutti di lei. A volte le loro pratiche si sovrappongono, come in una sontuosa natura morta tropicale fotografata e poi colorata. O in un libro illustrato dove lui scatta le foto e lei realizza le illustrazioni su uno sfondo bianco, così disinvolta verso una resa fedele che non esita a combinare diversi specimen della stessa pianta in una sola immagine, disegnando ad esempio foglie appartenenti a fasi diverse della fioritura. Mai pubblicato, il manoscritto è conservato negli archivi del Museo della letteratura di Tartu.

A parte una mostra del 1926 al Museum of History, Science and Art di Los Angeles – dove si trasferisce nel 1920 diventando cittadina americana –, le opere di Saal svaniscono nel nulla. Non giocano alcun ruolo nella storia dell’illustrazione scientifica e, in particolare, della botanica tropicale, divenuta celebre sin dal viaggio di Alexander von Humboldt e dalla pubblicazione di Plantae aequinoxiales (1817). Né sono esposte in un padiglione consacrato come quello di Marianne North all’interno dei Kew Gardens di Londra.

Eppure il potenziale non manca: un’artista lettone educata in Russia e catapultata in una colonia olandese in Indonesia prima di trasferirsi in California, riscoperta da un duo di artiste baltiche e da una curatrice rumena per una mostra a Venezia. Difficile restituire in poche righe il percorso della mostra, dove Norman realizza una trilogia filmica (Rip-off, Shelter, Thirst) e Razavi un’installazione performance o un «giardino concettuale»: «Con questo progetto ciò di cui stiamo realmente parlando non sono le piante ma la mania dell’uomo per le piante. Non romanticizziamo la natura o le piante, ma esaminiamo una questione sociale che le riguarda». La botanica viene così considerata come espressione culturale della sua epoca, segnata dalla colonizzazione e dall’addomesticamento della natura indigena – o esotica per lo sguardo occidentale – di diverse specie vegetali: i giacinti, i tulipani, le felci e ovviamente le orchidee.
Orchidelirium non manca infine di cogliere il rapporto con l’attualità: dall’importazione delle orchidee tropicali al commercio di olio di palma in Indonesia, fino al ruolo dei paesi baltici nello scacchiere europeo. E lo fa, nei momenti più felici, con i mezzi espositivi, come i documenti su Saal collocati all’interno di vetrine simili a quella scatola di Ward senza la quale nessuna orchidea tropicale sarebbe arrivata viva in Europa.