Alcuni libri sono delle mappe: funzionano come un invito all’esplorazione, indicano una strada e suggeriscono nello stesso tempo che è possibile percorrerne altre; stimolano a modificare il punto di vista e a modellarlo su di sé, proponendo quasi distrattamente di orientare la carta in modo diverso nell’auspicio di poter estendere il percorso tracciato. Spiegano, a loro modo, cosa è in ballo nel sottile confine che separa l’arte dalla vita, in quella farsa della vita che tutti devono recitare – dice Rimbaud, da cui il titolo del libro è mutuato – e nella pratica, per alcuni assurda, di vivere influenzati da ciò che si vede e ciò che si legge.

L’ultima innocenza è la prima prova narrativa di Emiliano Morreale, è stata appena pubblicata da Sellerio e dà un’indicazione esplicita delle sue intenzioni sin dall’immagine di copertina. Presi in una scena di Magnifica ossessione di Douglas Sirk, Rock Hudson e Jane Wyman sembrano dire ai lettori che il libro che hanno davanti li interesserà particolarmente se hanno fatto del cinema (per scelta o per caso) una parte essenziale della loro vita, tanto da correre il rischio di mettere a repentaglio il discrimine per molti versi così cruciale tra verità e finzione – con tutto ciò che ne consegue, tra il serio e il faceto.

Una serie di ritratti cinematografici conducono su alcune piste improbabili l’io fittizio dell’autore, che somiglia a certi personaggi un po’ spaesati che si potrebbero trovare nei film di João Nicolau, di Aki Kaurismaki o di Roy Andersson. Sei storie inconsuete affrontate in altrettanti capitoli che mostrano come il cinema non sia, hitchcockianamente, la vita a cui sono state tagliate le parti noiose, bensì quel luogo anomalo nel quale una vita qualunque, modificata dall’incontro con persone, esperienze e storie fino ad allora ignote, acquisisce una ricchezza che altrimenti non avrebbe. Perché se si può ragionevolmente ipotizzare che il cinema cominci con le immagini in movimento è altrettanto plausibile sostenere che non si concluda con esse, ma che contempli semmai come sua parte per nulla accessoria e anzi costitutiva una dimensione narrativa che conduce i film e i loro protagonisti verso direzioni che li eccedono, integrando le apparenti deviazioni e divagazioni fino a obbligarci a considerarle parte ineludibile del mito (si pensi al lavoro analogo portato avanti da un regista come Mark Rappaport, che del rimescolamento continuo di alto e basso, gossip e ricerca nella storia della Hollywood classica ha fatto il gesto critico e creativo al centro della sua produzione recente).

Morreale non è nuovo a questo tipo di considerazione: l’aveva in qualche modo già esplorata tramite le parole di altri scrittori nell’antologia Racconti di cinema, curata con Mariapaola Pierini e pubblicata nel 2014 da Einaudi.

Ciò che non si vede

Qui però, nel suggerire che una parte essenziale del cinema risiede anche in ciò che gli sta accanto – in quel che non si vede sullo schermo e che contribuisce alla definizione della settima arte tanto quanto e talvolta persino più delle immagini proiettate –, dismette i panni dello studioso e fa della sua stessa scrittura il centro di propulsione di un altro modo di considerare il cinema. Non sembri una forzatura leggere in questa scanzonata sperimentazione narrativa anche una certa forma di insoddisfazione nei confronti della scrittura accademico-scientifica, un tentativo di completamento (se non proprio di insubordinazione) che prova a cercare vie diverse; un’insofferenza che più che condurre verso un’invenzione romanzesca vera e propria spinge l’autore a evocare costantemente la potenza del falso: impostori, millantatori, fantasmi, uomini e donne che non c’erano o che si mascherano dietro pseudonimi sono i protagonisti di questi ritratti, alla ricerca continua del punto cieco della storia. E la domanda che Morreale pone in fondo a sé stesso, e di conseguenza anche al lettore, è allora radicale: una vita vissuta con/attraverso il cinema è da considerarsi – come recita il titolo di un film di Giorgio Castellani (il figlio del boss mafioso Michele Greco) – una vita perduta?

Storie possibili

Le storie narrate sono storie minori, dimenticate o mai raccontate: nient’altro che alcune tra le tante storie possibili che invitano a ripensare le gerarchie e a riflettere con leggerezza su ciò che è veramente in gioco attorno al cinema. Sono racconti di personaggi tutti un po’ fuori posto; note a margine, piccole ossessioni, dettagli secondari che provano a rivoltare le idee stesse di centro e di periferia. Così per il narratore risultano essenziali alcuni luoghi (sale cinematografiche come il Lubitsch e l’Orfeo di Palermo, o altre nominate fugacemente di cui si vuole comunque serbare memoria; e ancora cineteche in via di disfacimento; sperdute aule universitarie; biblioteche mancanti) e alcune persone, conosciute direttamente o meno (Franco Maresco, Alberto Grifi, Michal Waszynski, Thomas Harlan, Mike Bongiorno – ma anche, tra le righe, Francesco Orlando, Ciro Giorgini, Grazia Cherchi); e il lettore potrà trovarsi a interrompere la lettura per cercare la tomba di W. al cimitero del Verano (se ne trova un’immagine limpidissima), o la villetta di Tannenbergallee a Berlino nella quale viveva il regista del famigerato Jud Süss (qui Google Street View sostituisce lo sfondo con uno sfocato, forse aggiunto nel 2020, su un’immagine del 2008), o ancora, su Youtube, le immagini perdute di Dorothy Gibson nel mitico instant movie sull’affondamento del Titanic.

Corrispondenze

Il meccanismo di intrecci e rimandi tra i capitoli è intrigante, nel suo tentativo infruttuoso di cercare corrispondenze che possano delineare un orizzonte di senso, ormai inevitabilmente smarrito. Ma la posta in gioco più ambiziosa rimane quella della prosecuzione dell’esperienza, della speranza vana che l’innocenza del titolo possa essere se non altro penultima, e che questo canto del cinema possa ancora riguardare altre generazioni. Da questo punto di vista il momento di svolta del libro è senz’altro quello dedicato ad Anna di Grifi, non soltanto perché alla protagonista appartiene l’unica immagine presente, più o meno a metà del libro, ma anche perché rappresenta perfettamente quel cortocircuito tra cinema e vita che attraversa tutte le altre pagine, mostrando in che modo «tra il cinema e la vita non si poteva tracciare una linea, che il cinema non era fatto per accompagnare la vita e i suoi momenti e per rivelarceli. Dietro il cinema, contro il cinema, era la vita. I film potevano non solo amarla e servirla ma offenderla, mancarla, ferirla». L’intreccio di malinconia e ironia crea un’epica disincantata, al passo coi tempi e in una certa misura persino generazionale. E tuttavia non nasconde un’esortazione ben precisa, forse vagamente nostalgica ma di sicuro profondamente vitale e, come il cinema, rivolta a chiunque: perdersi è una cosa meravigliosa.