Emil Holub, dai diari di Livingstone ai diamanti
Che la pagina di un album fotografico con una o più immagini mancanti abbia un fascino maggiore rispetto a un’altra perfettamente integra è inconfutabile: stimola una componente visionaria in cui può instaurarsi un dialogo serrato tra elementi reali e di fantasia. Il vuoto nel pannello delle fotografie 1880-’90 delle miniere di diamanti di Kimberly in Sudafrica, proveniente dall’Archivio di Emil Holub, sollecita la formulazione di ipotesi che vanno al di là del soggetto inquadrato, impliicando l’ambiguità della figura stessa del leggendario esploratore ceco a cui è dedicata la mostra Emil Holub organizzata presso il Museo Náprstek delle Culture Asiatiche, Africane e Americane di Praga (fino al 20 aprile 2025).
A stuzzicare la curiosità di Emil Holub (Holice, Boemia orientale, oggi Repubblica Ceca 1847-Vienna 1902) per il continente africano, fu, subito dopo aver conseguito nel 1872 la laurea in medicina all’Università Carolina di Praga, la lettura dei diari di David Livingstone, il missionario scozzese primo europeo a percorrere nel 1840-’60 oltre 50mila chilometri nel continente africano. Tuttavia, considerando che Dutoitspan, uno dei primi campi minerari di diamanti della città di Kimberly, fu proprio la destinazione del giovane Holub – lì si guadagnò da vivere praticando la professione di medico –, non poteva non esserci in lui la consapevolezza del miraggio dei giacimenti diamantiferi, motore delle mire imperialistiche europee. Gli sfavillanti diamanti di Kimberly sarebbero stati la causa dell’incrinatura fatale tra gli inglesi che controllavano la Colonia del Capo e i boeri dello Stato Libero dell’Orange, portando alle due guerre boere, con il coinvolgimento della Repubblica del Transvaal, e alla definitiva affermazione, nel 1902, della supremazia britannica in Sudafrica.
Due soli viaggi nel continente più antico, in realtà, fecero guadagnare a Holub una popolarità che va ben oltre la sua contemporaneità, tanto da continuare a essere citato, ancora oggi, in numerosi contesti: dallo spot pubblicitario di una nota birra al videoclip della canzone Lidojedi (The cannibals), 1993, della band punk Tri sestry. In particolare, il cortometraggio d’animazione Dr. Emil Holub’s African Adventures di Martin Kopp e Milan Steindler (2011) e soprattutto il film The Great Adventure di Miloš Makovec (1952) ne hanno esaltato la personalità contraddittoria tra successi e fallimenti. In mostra se ne possono vedere alcune scene, con Otomar Krejca nei panni del viaggiatore e Antonie Hegerliková in quelli della moglie Rosa Hof.
I due si conobbero a Vienna, quando Holub, tornato a Praga nel 1878 dopo aver trascorso sette anni in Sudafrica, essendosi visto rifiutare le proprie collezioni di manufatti africani offerte in dono al Museo del Regno di Boemia, si era recato nella capitale dell’impero austro-ungarico per esporle lì. Si sposarono nel 1882, alla vigilia della seconda spedizione in Sudafrica. Molti dei manufatti che fanno parte della Collezione Emil Holub del Museo Náprstek e del dipartimento del Museo di Storia Naturale di Praga sono esposti in mostra, tra oggetti etnografici rituali e quotidiani, sacri e profani – sandali e amuleti, corone di piume e forcine per capelli, cucchiai di legno intagliato e kalabash dipinte, collane di perline di vetro e poggiatesta, asce e scudi ishilunga, sacchette porta-tabacco e pipe –, appartenenti a popoli diversi: Zulu, Mbunda, Ngwato, Subia, Ndebele, Sotho, Tlhaping. Nel mettere in luce l’apporto che Holub ha effettivamente dato alla conoscenza del territorio sudafricano (fu lui, nel 1875, a mappare per primo le cascate Vittoria) l’esposizione non tralascia mai di suggerire domande sulle criticità di un punto di vista che non è mai realmente obiettivo. Sono particolarmente preziosi i diari e quaderni su cui Holub documentava meticolosamente oggetti, situazioni, incontri, sia con la scrittura che con i disegni a matita e acquarello, il tutto pubblicato in diversi volumi, tra cui Eine Kulturskizze des Marutse-Mambunda-Reiches in Süd-Zentral-Afrika (1879) e la serie di paperback Sedm let v jižní Africe (Sette anni in Sudafrica, 1872-’79 e 1880-’81).
Un incontro significativo, nell’agosto 1875, fu quello con il re Sinopa Lutangu, capo del popolo Lozi, che viveva nella parte occidentale di quella che oggi è la Repubblica dello Zambia. Dopo una complessa negoziazione, Sinopa fornì all’esploratore le imbarcazioni e le guide con cui egli fu in grado di percorrere il fiume Zambesi, lungo il cui corso si trovano le cascate Vittoria, confine geografico naturale tra Zambia e Zimbabwe. La seconda spedizione gli permise, invece, di implementare la sezione dedicata alla storia naturale (flora e fauna) con un discreto numero di animali impagliati che aveva cacciato personalmente attraversando il territorio su un vagone speciale munito di torretta per l’osservazione. La spedizione da Città del Capo al territorio Mashukulumbwe, sulla sponda nord dello Zambesi, al tempo fu molto criticata perché priva di apporti scientifici, inoltre l’epilogo drammatico con la morte di due membri della squadra, oltreché i problemi di salute dello stesso protagonista, determinarono la sua immediata conclusione.
Nel settembre 1887 Holub fece ritorno in Europa a bordo del piroscafo Tartar. Dedicò gli anni successivi alla divulgazione delle conoscenze acquisite: i materiali esotici da lui collezionati erano di gran richiamo nelle mostre che organizzava. Nel 1894, in America, dove si recò con la moglie Rosa, unica donna ad aver preso parte alla spedizione africana, tenne oltre trenta lectures in tredici città. La passione con cui raccontava la sua Africa era eroica ma non priva di fascino, in un’epoca in cui simili esplorazioni erano un’avventura privilegiata.
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