Emerson, testi per un’identità nativa (e letteraria)
Ottocento americano Fondatore del Trascendentalismo, Ralph Waldo Emerson elevò il paesaggio americano a mero spirito influenzando generazioni di poeti. Una scelta dei «Saggi» da La Vita Felice
Ottocento americano Fondatore del Trascendentalismo, Ralph Waldo Emerson elevò il paesaggio americano a mero spirito influenzando generazioni di poeti. Una scelta dei «Saggi» da La Vita Felice
I Saggi Prima e Seconda Serie di Ralph Waldo Emerson, ben curati da Piero Bertolucci (testo a fronte, 2 voll., La Vita Felice, pp. 547 e 351, Є 29,50), iniziano – paradossalmente in un paese con ancora poca storia alle spalle – con Storia che è, a mio avviso, il testo più bello del fondatore del Trascendentalismo americano. Emerson fu faro della sua generazione nonché abile formulatore di aforismi d’effetto, pensatore eclettico (un po’ collagista, ma dal fondo schietto), grande retorico e oratore (imbonitore), alfiere ossimorico di un’indipendenza letteraria (“La nostra epoca è retrospettiva. Costruisce il sepolcro dei padri”), i cui contenuti non sempre sono di propria gestazione, bensì spesso derivati (da Swedenborg, Coleridge, Carlyle, Kant, Goethe, Montaigne), eppure, sì – questo è certo – egli è stato il fortunato disseminatore di idee nel suo presente e immediato futuro, non senza qualche danno: troppa fiducia, troppa fiducia, ahimè!, lamenterà qualcuno.
Il suo influsso si deve tuttavia ad altri saggi, piuttosto che a Storia, testi fondanti nella ricerca di un’identità nativa in prospettiva. E di questi il principale è il Natura del 1836, il manifesto trascendentalista per eccellenza, sintesi dei nodi del pensiero del suo autore, che si fa più laico, rispetto all’eredità ricevuta, nell’elaborare una radiografia dell’elevazione del paesaggio americano a mero “spirito”, l’anfratto dell’universo dove si verificano le condizioni per la creazione artistica (“la natura è l’amore per la bellezza”). Un invito così atteso all’epoca da ispirare Kindred Spirits (1849) di Asher Brown Durand, un dipinto rappresentativo dell’èlan che il messaggio di Emerson trasmetteva. Durand raffigurava il pittore Thomas Cole e il poeta William C. Bryant insieme nel cuore della foresta in serena conversazione: un rivisitato sublime americano. Altrettanto influenti sono stati altri saggi: La fiducia in se stessi (self-reliance): “Trust thyself” è qui il richiamo all’ordine non il “Conosci te stesso” delfico e amletiano; La superanima (Oversoul): un Geist mediatore tra Natura, Uomo e Trascendenza in un’Onnipotenza; Circoli: imprescindibile fonte di simbolismi; Il poeta: troppo influente.
Nell’indice dei due volumi, che includono il secondo (e non il primo) Natura, si contano diciannove saggi, dei quali alcuni più pragmatici (Amicizia, Prudenza, Eroismo …), pubblicati in due tornate nel 1841 e 1844, ma scritti in un arco di tempo più ampio. Manca dalla raccolta anche The American Scholar (1837), un’“orazione”, un altro manifesto intellettuale per la giovane nazione che però andava già deviando verso un neonato materialismo, lo sterile business, la tecnologia nemica della natura. In nome della rivalutazione del singolo, perno teorico della democrazia americana, Emerson ebbe una certa fortuna in Europa a fine secolo presso i superomisti, Nietzsche, in particolare, e in Italia soprattutto durante il Ventennio.
Il saggio Storia purtroppo sono in pochi a leggerlo. E, invece, quanto autentico futuro letterario c’è, assieme ad altre (i concetti di Emerson si espandono ma, in fondo, battono sempre le sesse note), in quelle pagine visionarie, esemplificate su immagini locali o attinte altrove (perché la mente pensante è “universale”). Ci sono Ezra Pound, il quale nel Canto 28 chiama Emerson “The sage of Concord”, intendendo però non il saggio ma la salvia (un pun: sempre un buon omaggio!), del quale avrà ricordato che “le parole sono anche azioni e le azioni sono una specie di parole”; c’è Hart Crane, che se ne imbeve fino a morirne; John Ashbery (ma non il suo amico Frank O’Hara) sceglie di raccogliere la direzione della “transparent eyeball” (“sono nulla, vedo tutto”; “L’occhio è il primo cerchio”); e Susan Howe, la più talentuosa poetessa di oggi, lo saccheggia ad libitum di spigolature testuali (“un tempo ogni parola era una poesia”) e lo evoca per certi suoi vezzi sparagnini e vampireschi (per la sua attività scrittoria riciclava pagine dei diari di suo padre che, così, cancellava in palinsesto).
T. S. Eliot invece trova in lui un fardello, e lo si può capire, perché Emerson, nonostante parlasse del poeta americano come “talento” (porgendo al figlioccio un conio di fortuna a venire), in nome dell’indigenismo negava la “tradizione”, una rinuncia sacrilega per il poeta modernista; E. A. Poe se ne infischia della sua predicazione; Walt Whitman, invece, preferisce appropriarsi egotisticamente e ingombrantemente del saggio Il poeta e procedere sicuro; H. D. Thoreau lo segue alla lettera (erano buoni amici a Concord, Massachusetts, ma, in genere, non vicini di casa: Thoreau viveva, periodicamente, davvero nei boschi); Emily Dickinson lo legge con devozione, le era permesso, sebbene non sappiamo bene se fosse d’accordo o no con le idee del Maestro, lei, infatti, pensava per conto suo, e quel pensare non sarebbe piaciuto al “saggio di Concord”, ma i termini metafisici “circonferenza”, “circolo”, “sfera”, “Oversoul”, devono averla stuzzicata; George Santayana lo considera un fantasioso portatore di rovine; D. H. Lawrence nei suoi Classici americani (1923) lo bistratta: il suo Trascendalismo è solo la conferma di un’America “senza sangue” (i.e., carne, Venere) e solo spirito (paracleto?) che non basta per una vita nerboruta, nonostante il furbesco pragmatismo, mai assente all’appello. Meglio la via dura del mare dell’anti-emersoniano Melville, benché repressa da rimanenze calviniste; Vittorini in Americana (1941), in tempi anti-fascisti, rimastica Lawrence forse per abbassarne la quota.
Insomma, c’è da dire di tutto su Emerson e su quanto ha ottimisticamente e sofisticatamente sognato o adulterato.
Per tornare al trascurato Storia, cosa ci vuole dire Emerson sotto l’enorme cappello storia? Sembra chiaro che questo saggio vorrebbe essere un più diretto, sia pure obliquo, manifesto anti-europeo. Emerson ci dice infatti che la Storia è un prodotto di una “mente universale” della quale è parte ciascuno di noi e che quindi la Storia è già contenuta nella mente umana: “il pensiero precede sempre il fatto; tutti i fatti della storia preesistono come leggi … un uomo è l’intera enciclopedia dei fatti. La creazione di mille foreste è contenuta in un’unica ghianda, e l’Egitto, la Grecia, Roma, la Gallia, la Britannia, l’America giacciono racchiuse già nel primo uomo. Epoca dopo epoca, guerre, regni, imperi, repubbliche, democrazie, sono semplicemente l’applicazione al multiforme universo di questo spirito multiforme. Questa mente umana scrisse la storia, ed essa deve leggerla. La Sfinge deve risolvere i propri enigmi. Se la totalità della storia è in un solo uomo, essa deve essere interamente spiegata dall’esperienza individuale”. Le ore di una vita umana corrispondono ai “secoli del tempo”, continua Emerson. La Storia deve essere dunque vissuta attivamente e non passivamente; i libri di storia sono solo commentari alla vita esperita dall’individuo. La storia non è qualcosa generata dal passato ma opera di natura, dove la vita è frutto di continue ripetizioni, dipendenti da poche leggi naturali, governate da una sola “causa”. E così è con la Storia, nonostante le varianti dei fatti o degli eventi. È il simbolismo, lo “spirito”, del fatto risiedente nella mente universale, e, quindi, anche in noi, che si ripete come per ipostasi, è “lo spirito e non il fatto che è identico”. Una formulazione molto originale e molto inverosimile, dilettantesca.
Se da un lato tale teoria denega il passato europeo, essa denega anche ogni novità ed eccezionalità all’avventura americana, si potrebbe obiettare, salvo l’accento sulla centralità di una natura americanizzata. Quella di Emerson, si direbbe, è un’elaborazione illusoria di una teoria della storia, una pura visione fantasmatica, che tuttavia, ancora una volta, mette al centro l’individuo e la biografia di uomini rappresentativi come suo unico manuale di registrazione e istruzione. È più vicina a una visione poetica che a una seria filosofia della storia. “Che cos’è l’Aurora Rospigliosi di Guido – scrive Emerson semplicisticamente – se non un pensiero mattutino, e i suoi cavalli se non delle mattutine nubi, e nient’altro”. E postilla: “Il vero poema è la mente del poeta”: pertanto, per lui, diversamente che dall’opinione dei suoi padri, non c’è nulla di “divino”.
È alla poesia infatti che il pensiero di Emerson offre perle preziose: la ghianda, la conchiglia marina, il pesce, la quercia, il fiore di loto, la palma. Il poeta “trova la propria biografia segreta in righe meravigliosamente intellegibili, scritte già prima che lui nascesse”. Ciò che era cominciato con una riflessione sulla Storia si volge, quasi deterministicamente per Emerson, nella nascita della poesia e del poeta (americano). Non a caso, in sostegno della sua visione esaltata e pirotecnica, egli si appella alla Musa della Storia, generalmente evocata dai poeti, qual era anche lui in proprio.
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