Una delle illusioni lasciate dalla prima quarantena per rallentare il contagio del Covid nel 2020 è che lo «Stato sociale» avrebbe recuperato una centralità negata dalle politiche neoliberali. Questa credenza è stata indotta da un equivoco indotto dall’eccezionale uso della spesa pubblica per contenere gli effetti provocati dalle chiusure delle attività produttive e sociali e dall’emergenza sanitaria amplificata dai tagli avvenuti negli ultimi vent’anni ai danni delle strutture ospedaliere o della medicina territoriale. Così non è stato, com’è evidente nel 2022.

I BONUS, GLI INCENTIVI e altri aiuti per contrastare disoccupazione o povertà sono stati ispirati a un modello di welfare senza uno Stato sociale. Alla pandemia non si è risposto con un piano organico capace di rovesciare la politica neoliberale che ha trasformato le istituzioni in «quasi mercati», ma con un welfare conservatore che riprodurrà l’ingiustizia nel secondo tempo della crisi latente e rafforzata dalla guerra della Russia in Ucraina. Questo modello di spesa sociale avrebbe potuto essere appoggiato da qualsiasi neoliberale sulla piazza: emergenziale e a termine, in attesa che la «crescita» ritorni mentre in realtà ci siamo avviati verso una «stagflazione». Un altro episodio della serie, triste e feroce, del «libero mercato».

PER ORIENTARSI in questa intricata vicenda della crisi dello Stato sociale, e delle sue attuali condizioni, leggiamo il volume curato da Chiara Giorgi Welfare. Attualità e prospettive (Carocci, pp. 325, euro 32) che raccoglie i contributi, tra gli altri, di Roberto Artoni, Chiara Saraceno, Ugo Ascoli, Elena Granaglia, Alisa Del Re, Nicoletta Dentico, Costanzo Ranci, Gianfranco Viesti e Domenico Cersosismo, Maurizio Franzini, Michele Raitano, Enrico Puccini (il volume sarà presentato oggi, ore 17,30 da Nadia Urbinati, Andrea Ciarini e Andrea Morniroli a Villa Mirafiori, a Roma, link per partecipare online: meet.google.com/oyg-cdwq-oij).

DAL PUNTO DI VISTA macroeconomico, delle politiche occupazionali e previdenziali, sanitarie e dell’istruzione, della casa o dell’immigrazione lo Stato sociale è sottoposto a una severa, e giusta, diagnosi. L’analisi evidenzia il fatto che questo sistema è il risultato di una contraddizione: non è certamente incline a espandere i servizi pubblici perché li appalta ai privati o al Terzo settore. Invece di procedere con riforme strutturali universalistiche si moltiplicano incentivi individuali e categoriali, mentre il paese è diviso da un endemico dualismo territoriale (Nord-Sud) e classista. Tanto più aumentano le crisi capitalistiche (2007-2008; 2020; 2022), tanto più si rafforza il Welfare arlecchino italiano: un sistema a dir poco disfunzionale che amplifica le disuguaglianze crescenti. Negli ultimi 15 anni questa situazione è drasticamente peggiorata. Le aspettative artificialmente indotte dalla tecnocrazia nel cosiddetto «piano di ripresa e resilienza» (Pnrr) provocheranno presto nuove delusioni. E nuove crisi politiche.

IL WELFARE resta un oggetto di un conflitto politico, lì dove può strutturarsi una prima, vera, trincea contro le politiche neoliberali che hanno trasformato lo Stato sociale in uno Stato imprenditore del capitale umano. Va reimmaginato, partendo dalla rottura con i tratti paternalisti, burocratici, disciplinari, familisti, aziendalisti e particolaristici.
C’è bisogno di una nuova visione del «servizio pubblico» ispirata alla centralità della riproduzione e della socializzazione della cura, un reddito universale di base; un salario minimo e contrattazione sindacale; accesso alle tutele e garanzie sociali in base alla residenza e non alla cittadinanza; modelli di gestione democratica e partecipativa, di sperimentazioni dal basso. Il catalogo è lungo, ma questo è solo l’inizio.