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Emergenza casa, le briciole del ministro e il silenzio dei sindaci

Emergenza casa, le briciole del ministro e il silenzio dei sindaci

Improvvisamente, in un pomeriggio d’autunno, un corteo furente e combattivo nel centro di Roma. La realtà irrompe inaspettata nelle strade. E ci si accorge di quanto lontana, anzi estranea, sia […]

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 2 novembre 2013

Improvvisamente, in un pomeriggio d’autunno, un corteo furente e combattivo nel centro di Roma. La realtà irrompe inaspettata nelle strade. E ci si accorge di quanto lontana, anzi estranea, sia la politica dalla vita materiale delle persone. Sì, è vero, ogni tanto qualche ricercatore fa due conti e spiega che i disoccupati sono sempre più e che i giovani neanche più lo cercano, il lavoro, che le aziende chiudono a raffica, che i poveri sono ormai un italiano su quattro, che i senzacasa sono diventati una moltitudine mentre gli sfratti imperversano, che è insomma a rischio finanche la semplice sopravvivenza di milioni di persone. Ma nelle consorterie politiche ci si accapiglia sui regolamenti parlamentari, si litiga sui tesseramenti ridondanti, sul volo dei falchi e il pigolio delle colombe, sul governo che sì, sul governo che no. Intanto un ministro commercializza cacciabombardieri e una ministra s’impietosisce per una detenuta bancarottiera. E tutti s’interrogano su fidanzate e cagnolini: Berlusconi ama più le prime o i secondi?

Ecco cos’è diventata la politica italiana.

Un graffio rabbioso ha squarciato giovedì scorso questa penosa messinscena. In migliaia a chiedere di poter vivere dentro quattro mura e sotto un tetto. A chiederlo ad alta voce e a brutto muso, con la foga animosa e indignata delle loro vite disperate. Dai loro palazzi occupati erano arrivati lì, nel cuore nobile della capitale, tra il Tritone e la Fontana di Trevi, ad «assediare» altri palazzi, quelli del potere, dove ministri, presidenti, sindaci e dintorni avrebbero dovuto finalmente decidere come affrontare l’emergenza abitativa italiana. «Briciole»: così sono stati definiti gli esiti del solenne incontro. Qualche milioncino ai Comuni per aiutare a pagare l’affitto le famiglie disagiate, nel peggior stile elemosiniero, e inoltre niente blocco degli sfratti.
Si continuerà a investire su armamenti e alta velocità, autostrade e grandi opere, e nessun programma abitativo. Quei quattro soldi preventivati, sempre che siano realmente disponibili, andranno nelle tasche degli immobiliaristi attraverso nuovi contratti d’affitto. Ma di realizzare case popolari, non se ne parla proprio. Sarebbe una scelta «troppo» keynesiana, concorrenziale con le grandi proprietà private e dunque sgradita ai partiti di governo. Va avanti così da vent’anni e più, da quando i numerosi governi che si sono alternati, anticipando lo stile delle grandi intese, hanno deciso di dismettere il patrimonio immobiliare pubblico, vendendo e svendendo la propria edilizia sociale.

Ora succede che in questo paese sono centinaia di migliaia le famiglie che hanno maturato il diritto all’alloggio popolare. Solo a Roma hanno superato quota cinquantamila. Che ne facciamo di tutta questa gente? Davvero si pensa che pur con qualche sdegnata mancetta comunale si troveranno case in affitto sufficienti? Sembra serio il ministro Lupi quando crede alle sue stesse carabattole, ma speriamo per lui che almeno qualche dubbio si affacci nel suo sguardo volpino.

Ma oltre al ministro, che fa il suo mestiere di domatore dei bisogni sociali, cosa dicono, cosa fanno i vari sindaci che si accomodano ai tavoli istituzionali portandosi dietro la pena dei tanti che chiedono invano? Obbedienti e queruli, si accontentano di quanto promesso e tirano a campare, superando anche il fastidio dei fischi e degli insulti? Oppure pensano di smarcarsi da quest’odioso inganno che annuncia soluzioni ma aggrava soltanto i problemi? Possibile che la potente e prestigiosa Associazione dei Comuni italiani sia diventata una compagnia di giro di anime smarrite che si limita a eseguire sempre lo stesso copione lamentoso, e mai trovi uno slancio, uno scatto di autonomia per far qualcosa di diverso?

Eppure potrebbero, i sindaci: se volessero. Potrebbero, per esempio, acquistare la volumetria privata invenduta e trasformarla in edilizia popolare. Con quelle stesse risorse che il governo dovrebbe mettere a loro disposizione. Ma anche riversando i canoni d’affitto per l’emergenza abitativa verso destinazioni più stabili: per ristrutturare il proprio patrimonio inutilizzato e destinarlo a uso alloggiativo, per esempio. Potrebbero infine requisire per utilizzi sociali quanto il mercato privato abbandona al degrado, interi fabbricati vuoti che sono un insulto alla povertà e al bisogno.

Potrebbero, insomma. Ma in casi come questo o si ha coraggio politico (e personale) oppure, malgrado annunci e impegni strombettati in ogni dove, si finisce per accodarsi alla crudele mediocrità della politica politicante.

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