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Emanuele Trevi, purché nulla impedisca la fuga da se stessi

Emanuele Trevi, purché nulla impedisca la fuga da se stessiMarcello Maloberto, «Vir Temporis Acti», 2016

Scrittori italiani Tra romanzo e autobiografia, sprazzi immaginativi e affabulazioni mnestiche: frammenti della vita di Mario Trevi, decano degli junghiani italiani, intrecciati all’indagine su di sé del figlio Emanuele in «La casa del mago», edito da Ponte alle Grazie

Pubblicato circa un anno faEdizione del 17 settembre 2023

Dell’attuale fortuna delle «storie vere», non solo in letteratura ma nell’arte in generale, si parla ormai da vari anni, nella critica militante e nelle riflessioni dell’accademia. Negli ultimi mesi il dibattito si è riacceso: molti dei libri di cui recentemente si è parlato di più – e che più si è premiato – sono legati a vicende accadute davvero, raccontate o da narratori-testimoni direttamente coinvolti, pronti a raccontarci i fatti propri, o da autori ben disposti a documentarsi su figure realmente esistite, più o meno lontane nel tempo e nello spazio.

Mentre la fiction globale di grana grossa e di più largo consumo continua a preferire l’invenzione, spingendola anzi all’estremo in generi di successo come il fantasy, la fantascienza e il noir, la narrativa che cerca di tenere insieme attenzione alle vendite e ambizioni culturali sembra oggi particolarmente attratta dagli schemi della biografia, dell’autobiografia e dell’autofiction. Vanno forte i diari, i saggi personali e narrativi; i racconti di eventi traumatici, di personalità spiccate, di luoghi sovraccarichi di significati e di storie.

Ne consegue a volte, ed è inevitabile, un po’ di stanchezza: che senso ha questo rifugiarsi di massa nella «storia vera»? Non sarà una scorciatoia per attirare col minimo sforzo l’attenzione di un pubblico anestetizzato dalla derealizzazione universale? Non allude a una pigrizia di fondo – una rinuncia alla fatica e insieme all’orgoglio di inventare, fuori dagli stereotipi della letteratura di genere, un modello di realtà che costringa chi scrive e chi legge a un supplemento di riflessione critica, a una verifica della propria posizione nel mondo?

Fin dal suo esordio Emanuele Trevi percorre la strada delle storie vere: dal ritratto di grandi singolarità (perlopiù artisti o intellettuali ‘diversi’, conosciuti personalmente e a diverso titolo amati) al viaggio o sopralluogo in posti speciali della storia pubblica e privata. Il suo nuovo romanzo-non-romanzo, La casa del mago (Ponte alle Grazie, pp. 256, € 18,00) non fa eccezione: il mago del titolo è il padre dell’autore, Mario Trevi, grande psicoanalista di scuola junghiana, allievo diretto di Ernst Bernhard e ‘guaritore’ di diverse generazioni di pazienti (anche se, specifica il narratore, «lui non guariva in senso stretto, come si può sanare un dente cariato, perché a rigore l’anima non ha un vero stato di salute da recuperare: quando mai è stata bene?»).

Quanto alla casa, si tratta dell’appartamento romano dove quel grande terapeuta esercitava il mestiere, e nel quale, alla sua morte, nel 2011, s’installa il figlio, ovvero colui che racconta. E racconta, in sostanza, una doppia vicenda, disposta su un doppio piano temporale.

Da un lato la vita di Mario Trevi, illuminata per frammenti, dall’infanzia agli ultimi mesi di vita; dall’altro l’inchiesta che il figlio Emanuele conduce sul suo rapporto col padre a partire proprio dall’esplorazione della casa-grotta, degli oggetti privati, dello spirito del mago che aleggia nelle stanze misteriosamente infestandole.

Autobiografia di Emanuele e biografia di Mario, insomma. Ma se La casa del mago fosse solo questo, sarebbe opera di limitato interesse, destinata a infittire la schiera delle storie vere aneddotiche, che non resteranno, e che non hanno coscienza di sé. Da vero scrittore, Trevi ci mette lo stile, l’affabulazione e la struttura: dimostrando ancora una volta che quello che conta, in letteratura, è la forma – poco importano la materia, il tema, ciò che è accaduto davvero o ciò che la fantasia o la memoria più o meno consapevolmente distorce («Scrivere di persone e vicende reali non è troppo diverso dal cimentarsi con storie totalmente inventate. La memoria è una grande romanziera: dilata, corregge, omette senza scrupoli, pretende di usurpare un’affidabilità che non le appartiene – non è possibile sottrarsi alla sensazione di essere dei vampiri, oltre che dei mistificatori»).

La casa del mago diventa così, nel libro, una immagine eloquente della coscienza umana – un po’ come l’Overlook Hotel diventa nelle mani del Kubrick di Shining l’immagine della nostra psiche; mentre l’ascolto della presenza latente del mago si fa simbolo di una ricerca più generale di significato.

Ultimato il trasloco, il figlio-narratore sceglie di dormire in una stanzetta in fondo al corridoio, quella «che mio padre usava come sala d’aspetto». La scelta segna l’inizio dell’attesa che un senso si riveli, ma è anche una rappresentazione sottile del sé: il figlio come paziente, anima ferita che cerca di curarsi più che di guarire («Forse i suoi dolori, quei colpi ricevuti dai pungoli affilati e invisibili che non smettono di tormentarla, rappresentano per lei anche la certezza di essere viva»).

Ma soprattutto il figlio sembra essere un condannato all’attesa, eterno bambino che si vuole amato ma rilutta a conoscersi, maestro della fuga e della sottrazione di responsabilità («Arrivato in cima alla salita, chiedevo agli dèi sempre la stessa cosa: che non accadesse nulla di importante, che il giorno dopo fosse uguale al giorno prima, che tutto continuasse a svanire delicatamente, come un profumo che si disperde nell’aria»). Questo figlio è del resto appassionato di zapping – appassionato cioè dell’esercizio della divagazione, del dileguarsi, del non finire.

Un apprendistato è il sottotitolo che Trevi aveva scelto per il suo bel libro del 2018, Sogni e favole. Lì, l’addestramento veniva impartito al narratore dalla frequentazione diretta di tre diversi intellettuali – Amelia Rosselli, maestra di poesia; Arthur Patten, maestro di ritratto dal vero; Cesare Garboli, maestro di saggismo.

Anche La casa del mago è in fondo la storia di un apprendistato, non meno psicologico che professionale. Dalla resa dei conti a distanza col padre il figlio deduce quella che definisce a un certo punto «la scoperta dell’attimo», e che noi lettori possiamo tradurre con la fine della fuga dalla realtà.

Sul piano personale, questo comporta una tregua parziale dalla depressione («Basta con questa malinconia! A forza di pronunciarla, la parola aveva perso qualunque significato attendibile. Bisogna trovarne una nuova, diceva mio padre con l’aria di chi la sa lunga»).

Sul piano artistico, e professionale, significa l’inizio di una nuova dimensione della scrittura, e della propria affermazione attraverso la scrittura – se scrivere significa, come per Trevi ha significato, cercare nella propria esperienza degli altri un modello di vita («Forse nel futuro non avrei avuto più bisogno di fuggire come un ladro da affetti, abitudini, case, programmi. Non avrei più avuto bisogno di coinvolgere il mondo, perché potevo continuare a fuggire all’interno di me stesso»).

Nel suo segmento più  autobiografico, La casa del mago racconta alcuni mesi trascorsi tra il 2011 e il  2012. Non credo sia un caso che proprio nel 2012 sia uscito Qualcosa di scritto  il libro che ha fatto di Trevi uno scrittore centrale nel panorama italiano.

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