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Elsa Morante nella Storia più grande

Elsa Morante nella Storia più grandeElsa Morante

Frammenti A proposito del capolavoro della scrittrice romana e del dibattito che suscitò

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 24 agosto 2024

È una buona abitudine quella di approfittare dell’estate per leggere o rileggere un «classico» (grazie a questa abitudine anni fa scoprii un romanzo oggi tra i più trascurati della nostra storia, le Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, e scoprii Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi, eccetera.

Lo faccio da tanti decenni e consiglio sempre di farlo a tutti i miei amici, e quest’anno ho riletto La storia di Elsa Morante, anche perché fanno cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione (1974, e subito in edizione economica per volere dell’autrice) e perché molto se ne parlerà in celebrazioni e convegni. Ne fui a suo tempo uno dei primi lettori, perché amico di Elsa che mi fece mandare da Torino, dall’Einaudi un giro di bozze a Napoli, dove abitavo. E io mi chiusi a leggerlo nella mia soffitta di Montesanto per un giorno e una notte, perché Elsa premeva telefonicamente per un riscontro. Aveva anche scommesso con me che alla fine avrei pianto, e così fu, vinse la scommessa e glielo dissi non solo al telefono ma correndo a Roma per festeggiare. Ho un piccolo merito nel libro, per avere fatto leggere io a Elsa due poeti che non conosceva: il peruviano César Vallejo da cui prese la dedica por el analfabeto a quien escrivo, e lo spagnolo Miguel Hernàndez che diventò uno dei suoi poeti prediletti e a cui rubò la chiusa, da una poesia che Hernàndez aveva scritto nelle carceri franchiste dove era rinchiuso e dove è morto, alla notizia che il figlio che gli era nato da poco era morto per denutrizione.

Ma il vero finale del romanzo ella volle prenderlo dalle lettere carcerarie di Antonio Gramsci: «Tutti i semi sono falliti eccettuato uno, che non so cosa sia, ma che probabilmente è un fiore e non un’erbaccia». Di questo avrebbero dovuto, penso, tener conto certi lettori comunisti del romanzo, compresi quelli del manifesto, ma che pure pubblicò in mezzo a tante critiche anche stupide e aggressive una delle difese più notevoli per penna di Rina Gagliardi, che del manifesto era una delle firme più vive. Il titolo: La Morante non è marxista. E allora? Molti critici e storici (soprattutto critiche e storiche) hanno ricostruito un dibattito che è certamente l’ultimo così ampio suscitato in Italia da un romanzo, e ricordo come il migliore Cesare Garboli, ed è impressionante vedere quanto se ne discusse e la fragilità delle posizioni al negativo, le più accanite quelle degli «avanguardisti» del Gruppo 63. Sono oggi un documento, tuttavia, di una società fortemente reattiva… il ricordo anche un po’ nostalgico di generazioni di lettori, anche proletari e che leggevano poco ma che sapevano nutrirsi della letteratura più attiva e che amavano discuterne.

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